La lingua degli atti notarili 112 anni dopo

Pubblichiamo la relazione svolta da Arrigo Roveda al Convegno organizzato dal Comitato Notarile Lombardo Ticinese tenutosi a Lugano lo scorso 9 ottobre 2025 dal titolo “Il Notariato dei due ordinamenti alle prese con le nuove tecnologie. Considerazioni, prospettive e casi pratici”. Il contributo ha pertanto un tono discorsivo e indicazioni prevalentemente pratiche.

 

L’ultracentenaria legge notarile italiana nasce nel febbraio del 1913. Si colloca, da un punto di vista storico, alla fine della grande emigrazione.

Si calcola che tra l’Unità d’Italia e l’inizio della Prima guerra mondiale circa 30 milioni di italiani lasciarono il paese per cercare fortuna, in gran parte negli USA e in Sudamerica, ma anche verso la Svizzera e altri Paesi europei. Il vettore della storia spingeva dunque in un senso opposto a quello verso cui spinge il vettore della cronaca.

Oggi, mentre la natalità decresce, l’Italia è diventata un Paese di forte immigrazione e, in aggiunta a ciò, un Paese che attira, grazie non solo alla new resident tax, ma anche alla oggettiva alta qualità della vita, un gran numero di persone che, anche senza necessità lavorative impellenti, scelgono di abitare nel nostro Paese.

Ed in più la globalizzazione rende necessario utilizzare sempre con maggior frequenza la lingua comune degli affari che, senza dubbio, è l’inglese.

Non sorprende quindi scoprire che le norme scritte nel 1913 son divenute, per quanto riguarda l’utilizzo della lingua, inattuali e inadeguate.

La regola è contenuta nel primo comma dell’articolo 54 L.N: “Gli atti notarili devono essere scritti in lingua italiana”.

Le eccezioni nel secondo comma del medesimo articolo (“Quando però le parti dichiarino di non conoscere la lingua italiana, l’atto può essere rogato in lingua straniera, sempre che questa sia conosciuta dai testimoni e dal notaro”.) e nel successivo (“Qualora il notaro non conosca la lingua straniera, l’atto potrà tuttavia essere ricevuto con l’intervento dell’interprete, che sarà scelto dalle parti.”)

La ratio di questa disciplina appare evidente alla dottrina che ha approfondito il tema.

La lingua italiana è quella che, appunto, costituisce la regola essendo (a maggior ragione nel 1913) presumibilmente conosciuta da notaio e parti e quindi funzionale alla reciproca comprensione tra le parti stesse. Quando però la reciproca comprensione tra notaio e parti è ottenuta tramite una diversa lingua conosciuta da tutti, oppure tramite l’interprete se non esiste una lingua comune, la lingua italiana deve comunque coesistere con la lingua straniera in funzione della circolazione dell’atto e quindi a beneficio dei futuri utilizzatori. Il legislatore, quindi, non si è preoccupato solo del momento creativo dell’atto (ciò che avrebbe reso sufficiente la conoscenza da parte di tutti di una diversa lingua) ma anche della sua circolazione.

Soffermiamoci sugli inconvenienti che derivano da un così antiquato sistema e caliamoci nella realtà dello studio di un notaio che conosce perfettamente una lingua diversa dall’italiano (ipotesi eventuale perché, incredibilmente, nel percorso di formazione e selezione dei notai italiani ancora oggi non è previsto lo studio, e tantomeno la verifica di una sua conoscenza, di una lingua straniera).

Il nostro notaio conosce perfettamente il francese ed un cittadino francese, che conosce perfettamente l’italiano essendo residente in Italia da anni, si rivolge a lui per conferire una procura che dovrà essere utilizzata in Francia per costituire una società. Un atto quindi che non deve essere registrato né depositato presso un ufficio pubblico italiano.

Questa procura, che richiede l’atto pubblico, secondo un’interpretazione prudenziale molto seguita dalla prassi, non potrà essere scritta in francese ma in italiano. Eppure, le esigenze di comprensione delle parti sono soddisfatte così come quelle di circolazione e comprensione da parte dei futuri utilizzatori.

Posto di fronte a un sistema di regole così antico e rigido il notaio deve giocoforza industriarsi per trovare soluzioni che consentano di risolvere il problema aggirandolo senza violare le norme ed incorrere nelle gravissime sanzioni previste dagli articoli 138 (“E’ punito con la sospensione da uno a sei mesi il notaio che contravviene alle disposizioni degli articoli 54, 55”) e 142 (“E’ punito con la destituzione il notaio che è recidivo…”  nella contravvenzione predetta) ed altresì evitare la nullità dell’atto (Art. 58 L’atto notarile è nullo, salvo ciò che è disposto dall’art. 1316 del Codice civile, se non furono osservate le disposizioni degli articoli … 54, 55 “).

Per inciso, ed è un tema di cui parlerò a marzo al convegno organizzato dalla Scuola del notariato umbro marchigiana, la sanzione della nullità, qui ed in altre parti dell’ordinamento italiano, appare del tutto sproporzionata allo scopo.

Uno straniero che non conosce la lingua italiana decide di comprare per diversi milioni di euro una villa sul lago di Como, come ormai quotidianamente accade. Non conoscendo alcun notaio italiano si affida ad uno sbadatissimo nostro collega che sbaglia ad applicare gli articoli 54 e 55 non facendo intervenire all’atto l’interprete. Risultato: l’atto è nullo, la proprietà non sarà mai passata dal venditore all’acquirente e al nostro straniero non resterà che recuperare i suoi soldi, se nel frattempo non saranno stati spesi, con le lentezze tipiche della giustizia italiana. Una pubblicità negativa per il paese che provoca danni inestimabili.

Lo spauracchio delle pesanti sanzioni disciplinari sommato a quello della nullità ha fatto nascere e consolidare alcune prassi ancor più rigide di quelle cui porta la lettera delle norme.

L’articolo 54 consente la possibilità di rogare l’atto in lingua straniera solo quando le parti dichiarino di non conoscere l’italiano. La prassi si è orientata, perlomeno in passato, su una lettura formalistica ritenendo che, se anche una sola delle parti conosce l’italiano, l’atto debba essere redatto in italiano pure nel caso in cui notaio e parti avessero conoscenza comune di una diversa lingua. Tale formalistica lettura appare contrastare con la ratio della legge, finalizzata appunto alla reciproca comprensione degli accordi. Ove esista una lingua straniera comune a parti e notaio è preferibile invece redigere l’atto in tale lingua piuttosto che in italiano, lingua appunto non comune a tutti.

Se il notaio conosce la lingua straniera, si è detto, l’atto può essere rogato in lingua straniera “sempre che questa sia conosciuta dai testimoni”. Lo spauracchio della nullità ha indotto la prassi a ritenere sempre ed in ogni caso necessaria la presenza dei testimoni nel caso in esame. La lettera della legge dovrebbe invece portare ad una diversa conclusione. La lingua straniera deve essere conosciuta dai testimoni sempre che la loro presenza sia prevista dalla legge in relazione alla natura dell’atto. La sola circostanza che l’atto sia redatto in una lingua straniera non impone la presenza dei testimoni. Si è rilevato in dottrina che la conoscenza della lingua straniera da pare del notaio e dei contraenti dia garanzie sufficienti a non ritenere indispensabile la presenza dei testimoni.

Un sistema così rigido spinge ad escogitare soluzioni che rendano più facile la vita a notai e ai loro clienti.

La prima è più intuitiva è quella dell’utilizzo della scrittura privata autenticata che, come ci ricorda lo studio 7/2021A del Consiglio Nazionale del Notariato, sfugge all’applicazione degli articoli 54 e 55 che hanno come punto di riferimento l’atto pubblico.

Attingiamo quindi a piene mani da questo ottimo studio del CNN a firma Eleonora Bazzo ed Elisa Puglielli.

“Il testo della scrittura da autenticare è formalmente opera delle parti, anche quando il notaio sia stato incaricato della sua redazione, poiché tale incarico opera unicamente sul piano del contratto d’opera professionale. Il notaio che autentica la sottoscrizione di una scrittura privata è comunque tenuto al controllo di legalità della stessa, disposto dal legislatore ai sensi dell’art. 12, primo comma, lett. a), l. n. 246/2005, che ha espressamente esteso l’art. 28, comma 1, n. 1, l.n. anche alle scritture private autenticate, e deve quindi poterne conoscere il contenuto.”

Ciò significa che il notaio per poter autenticare una scrittura privata redatta in lingua straniera ovvero in doppia lingua (italiana e straniera con testo a fronte o in calce) deve necessariamente conoscerla, ciò al fine dell’esercizio del controllo di legalità.

“La scrittura privata in lingua straniera, autenticata dal notaio, deve essere munita di traduzione in lingua italiana, solamente se leggi speciali la richiedano per consentire l’adempimento di determinate formalità, di registrazione e di pubblicità, della scrittura medesima. La traduzione in italiano deve essere conforme a quanto richiesto da detta normativa speciale e, pertanto, deve essere asseverata laddove sia effettuata da un soggetto diverso dal notaio”. Aggiungiamo noi, la traduzione sarà necessaria anche quando anche una sola delle parti non conosce la lingua in cui è redatta la scrittura privata perché oltre al controllo di legalità il notaio è tenuto a svolgere la sua funzione di adeguamento. La stipula sarà comunque semplificata e più veloce in quanto il notaio potrà dare lettura del testo solo nella lingua “comune” omettendo la lettura del testo in italiano, cosa non possibile per l’atto pubblico.

Quando però la forma dell’atto pubblico si impone e la scrittura privata autenticata non può essere utilizzata, la strada si fa più in salita e si deve aguzzare l’ingegno.

In questo caso si cercherà di spostare (e sempre anche al fine di evitare duplicazioni di lettura) il più possibile dall’atto pubblico ai suoi allegati il contenuto del contratto.

Soccorre sul punto un altro studio del Consiglio Nazionale del Notariato (studio 54-2020P a firma Mauro Leo) che si occupa della traduzione dei documenti in lingua straniera allegati agli atti notarili.

Come si legge in tale studio l’opinione dottrinale nettamente prevalente ritiene che l’art. 54 L.N. “non sia applicabile agli allegati in lingua straniera dell’atto notarile e che quindi non sussista alcun obbligo di tradurli in italiano. L’argomento principale è che il riferimento all’”atto notarile” contemplato dall’art. 54 è da intendersi al solo documento proveniente dal notaio e non invece ai documenti formati prima dell’atto che a questo vengono allegati, i quali non possono essere assoggettati ai formalismi redazionali dell’atto notarile”.

Tuttavia, appare eccessivo concludere “che in accoglimento di una impostazione formalistica, il notaio possa disinteressarsi – sotto il profilo della comprensibilità – della documentazione in lingua straniera allegata all’atto notarile”.

Appare più coerente col sistema, invece, ritenere che, qualora il notaio o anche una sola delle parti non conosca la lingua dell’allegato ovvero l’atto debba essere registrato o inserito nei pubblici registri, sia invece necessario procedere alla sua traduzione pur al di fuori della rigidità delle forme prevista dalla disciplina degli articoli 54 e 55 della legge notarile.

Deve al contrario escludersi la necessità di traduzione degli allegati di natura esclusivamente tecnica quali le planimetrie catastali, gli attestati di prestazione energetica, i passaporti, gli assegni, le disposizioni di bonifico. Qualche dubbio in più potrebbe porsi per la provenienza e le menzioni urbanistiche relative ad opere realizzate successivamente alla prima edificazione.

Un discorso a parte meritano gli atti pubblici che contengono i verbali delle riunioni di organi collegiali (assemblee, consigli di amministrazione…).

Sempre più spesso queste riunioni, specialmente se di società multinazionali, si tengono esclusivamente in inglese e ciò anche se tutti gli intervenuti, o la gran parte di esse, conoscono l’italiano. Ciò non impedisce al notaio incaricato di redigere esclusivamente in italiano il verbale che documenta la discussione e le delibere e ciò sia nel caso in cui il presidente della riunione che sottoscrive il verbale conosca l’italiano, sia nel caso, sempre più frequente, in cui il verbale sia sottoscritto dal solo notaio. Resta affidata alla sensibilità del notaio l’opportunità di dar conto nel verbale della lingua utilizzata nel corso della discussione. Naturalmente sui libri sociali potrà anche essere riportata, a cura degli amministratori, una traduzione di cortesia. Per inciso si ricorda anche quanto già diversi anni fa ebbe ad affermare la Commissione istituita dal Consiglio Notarile di Milano “Nel caso in cui gli interventi in assemblea siano svolti in una lingua non compresa dal verbalizzante, essi dovranno essere tradotti in modo da assicurare al soggetto verbalizzante la comprensione dell’intervento, senza però vincoli formali, non applicandosi al verbale gli artt. 55, 56 e 57 della legge notarile.”  (Massima 45)

Per altri particolari atti, siamo però sul piano delle eccezioni, si può evitare l’applicazione degli articoli 54 e 55, rompendo una non invincibile abitudine di costituire in atto una parte non necessaria, ricorrendo alla tecnica dell’atto senza parte, ogniqualvolta si sia in presenza di un soggetto che non parla l’italiano.

Sono costretto qui ad autocitarmi, rinviando ad un mio scritto nel quale mi avventuro a spiegare come il notaio, sottoscrivendo in autosufficienza l’atto, e pertanto senza costituire in atto alcun soggetto, possa tra l’altro:

Non essendoci parti dell’atto è evidente la non applicabilità degli articoli 54 e 55 che tanto ci disturbano. 

Corre infine l’obbligo di dar conto del pregevole ed autorevole studio di Giovanni Liotta (ora consigliere nazionale e coordinatore della Commissione Affari Europei ed Internazionali del Consiglio Nazionale del notariato) nel quale cerca di dare una risposta al tema che ci affligge e cioè se sia “prospettabile un’interpretazione che, grazie ai principi euro-unitari, superi le rigidità degli anzidetti articoli almeno in ambito UE, includendosi tra tali principi il multilinguismo?”

Mi pare utile riportare le conclusioni di questo importante e analitico studio.

“Come risulta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia  (per esempio 30 novembre 1995, Gebhard, C-55/94), i provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà` fondamentali garantite dal TFUE dovrebbero soddisfare le seguenti quattro condizioni: applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi di interesse generale, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di tale obiettivo.

Ad avviso di chi scrive, pur con qualche incertezza, l’attuale previsione degli articoli 54 e 55 della legge potrebbe non resistere al test di proporzionalità.

L’effetto del contenuto di dette norme, di fatto dirette a privilegiare la lingua italiana (al punto però da pregiudicare oggi, in epoca di scambi sempre crescente e di esigenze di circolazione dell’atto pubblico che andrebbero a valorizzarlo, chi l’italiano conosce), non sembra agevolmente conciliabile con una società globalizzata e soprattutto con un assetto ordinamentale significativamente mutato per effetto dell’integrazione europea, sì da ritenere superabili i vincoli imposti nel 1913.

In particolare, non sembra implausibile né contraria alla citata ratio della legge notarile, alla luce di quanto fin qui riportato, un’interpretazione correttiva che permetta di leggere gli articoli in discorso nel senso che è possibile ricevere l’atto notarile, su richiesta anche di una delle parti e anche se conoscono la lingua italiana, in una ulteriore lingua rientrante nel multilinguismo dell’UE.”

Invero, appare oggi discriminatorio per chi conosca l’italiano non poter accedere alla redazione di un atto pubblico in doppia lingua per esigenze di maggior comprensione, se cittadino europeo non italiano o di circolazione immediata in ambito UE, se italiano.”

“L’obiettivo della tutela della lingua italiana e, quindi, della comprensibilità degli atti pubblici notarili è ottenuto con una norma che limita oltre il necessario altri interessi generali come quelli alla circolazione del documento che può esser anche titolo esecutivo europeo o atto pubblico rilevante in molti Regolamenti EU. L’obiettivo originario può essere agevolmente mantenuto disapplicando l’art. 54 e l’art. 55 nella sola parte in cui non consentono anche a chi conosce la lingua italiana di attivare il meccanismo ivi previsto. E ciò porterebbe con sé una limitazione di costi e di tempi per i cittadini europei.

In sintesi, volendo fornire una sorta di conclusione operativa di quanto sopra sviluppato, si potrebbe enucleare la massima che segue a uso dei notai:

Le norme degli articoli 18 comma 1, 20 comma 1 e 21 comma 1 del TFUE e i principi espressi dalla Corte di Giustizia UE in materia di divieto di discriminazione per un pieno esercizio dello status di cittadino europeo, ostano a una normativa come quella degli articoli 54 e 55 della legge n. 89/1913 (legge notarile) che impediscono al cittadino italiano di poter stipulare atti pubblici notarili in una lingua ufficiale dell’UE in aggiunta alla lingua italiana. L’attuale limitazione in essi contenuta non appare proporzionata e giustificata allo scopo di assicurare la piena comprensione del contenuto degli atti notarili italiani, in Italia, a chiunque.”

Coraggio quindi, colleghi italiani, i paletti degli articoli 54 e 55 stanno perdendo il loro vigore.

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