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Negli ultimi decenni, la responsabilità civile del notaio ha conosciuto una tendenza senz’altro espansiva nella giurisprudenza. In tale scenario, risulta di particolare interesse individuare gli spazi consentiti al notaio nel modulare la garanzia di conformità edilizia gravante sul venditore, domandandosi fino a che punto questi possa legittimamente limitarla ovvero estenderla, per rispondere agli interessi delle parti, senza incorrere in responsabilità.
Partendo da un inquadramento della responsabilità civile notarile, occorre anzitutto delineare le ragioni della sua tendenza espansiva, che riflette peraltro un’evoluzione più generale della responsabilità professionale (basti pensare, storicamente, al settore medico sanitario). In tal senso, assume rilievo il fatto che il notaio sia l’unico tra i liberi professionisti a rivestire anche la qualifica di pubblico ufficiale, come tale investito di ampi poteri a cui corrispondono gravose responsabilità. Né è marginale, a questo riguardo, ricordare che i notai costituiscono la prima categoria assistita da forme di assicurazione collettiva, circostanza che contribuisce a rendere i giudici meno esitanti a riconoscere profili di responsabilità nei loro confronti.
Tuttavia, bisogna considerare anche le criticità derivanti da un’eccessiva dilatazione della responsabilità notarile. Se, in ambito sanitario, il pericolo è che il medico rifiuti di eseguire interventi con esito incerto (c.d. medicina difensiva), in ambito notarile il rischio è paralizzare la stipula degli atti la cui legittimità non è del tutto pacifica, finendo per pregiudicare quel ruolo di “custode” e insieme di “creatore” del diritto vivente che già Carmine Donisi riconosceva al notaio (cfr. M. Palazzo, Il ruolo del notaio nella formazione del regolamento contrattuale. Un ricordo di Carmine Donisi, in Notariato, 2025, 139 ss.).
Delineate le ragioni e i limiti della tendenza espansiva della responsabilità notarile, bisogna soffermarsi sugli istituti civilistici attraverso cui essa si è venuta consolidando.
Un primo snodo riguarda la natura della responsabilità, che fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso veniva intesa come extracontrattuale: si escludeva, infatti, che la richiesta del cliente potesse dare vita a un contratto con il notaio, il quale è tenuto a prestare il suo ministero in forza dell’art. 27 l. not. In seguito, si è affermata l’idea che la responsabilità notarile possa, nondimeno, qualificarsi in termini contrattuali, con ricadute significative sul piano probatorio, generalmente più favorevole al cliente rispetto al modello aquiliano: sia con riguardo al termine prescrizionale (decennale, anziché quinquennale), sia all’onere della prova della colpa del notaio (con implicazioni variabili, come si vedrà, a seconda della configurazione dell’obbligazione notarile).
La responsabilità del notaio resta di natura aquiliana nei confronti dei terzi e della parte dell’atto diversa da quella che gli ha conferito l’incarico. Tuttavia, anche verso quest’ultima essa tende ad assumere natura contrattuale in base alla teoria del “contatto sociale”, la quale, pur avendo subito un arresto normativo in ambito medico (art. 7, terzo comma, l. 24/2017, cosiddetta Gelli-Banco), conserva piena validità in altri settori.
Un secondo snodo riguarda il modo di intendere la responsabilità contrattuale. Lo standard di diligenza professionale fissato dall’art. 1176, secondo comma, c.c. è infatti sempre più spesso interpretato in modo così rigoroso da trasformare l’obbligazione del notaio – tradizionalmente considerata di mezzi, al pari di quella di altri professionisti – in un’obbligazione di risultato, nell’ambito della quale il mancato raggiungimento del risultato atteso dal creditore è sufficiente a far presumere l’inadempimento, salvo che il debitore dimostri di non avere colpa. In tal senso, la giurisprudenza afferma sovente che il notaio non è tenuto soltanto a garantire la regolarità formale dell’atto, ma anche il conseguimento del suo obiettivo tipico e dello scopo concretamente perseguito dalle parti attraverso di esso.
Parallelamente, si tende a interpretare in senso restrittivo la disciplina del contratto d’opera professionale, escludendo in linea di massima che il notaio si trovi ad affrontare problemi tecnici di speciale difficoltà, tali da limitarne la responsabilità alle sole ipotesi di colpa grave ovvero di dolo (art. 2236 c.c.).
Un terzo profilo attiene alla fonte degli obblighi integrativi a carico del notaio, non espressamente previsti dalla legge o dal contratto d’opera professionale stipulato con il cliente. A tale riguardo, bisogna ricordare che tali obblighi non derivano dalla diligenza in sé, la quale rappresenta, a rigore, solo un criterio di valutazione del comportamento del debitore. Derivano, piuttosto, dalla clausola di buona fede e correttezza, che consente di ampliare gli obblighi notarili integrando la scarna previsione dell’art. 47, capoverso, l. not., secondo cui questi si limita a indagare la volontà delle parti e a curare la compilazione integrale dell’atto sotto la propria direzione e responsabilità.
Proprio grazie all’operatività di tale clausola generale, il notaio affianca al tradizionale ruolo di “custode delle forme” quello di “garante del raggiungimento dello scopo” perseguito dalle parti. Tra gli obblighi integrativi che ne derivano, vi è infatti anche quello di informare e consigliare le parti, affinché l’atto rispecchi effettivamente le loro intenzioni ed esigenze.
Se, dunque, si riconosce al notaio un ampio potere-dovere nel conformare il regolamento negoziale in funzione degli interessi dei contraenti, occorre domandarsi quali limiti debba rispettare per non incorrere in responsabilità. In particolare, si vuole in questa sede chiarire fino a che punto egli possa modulare la garanzia di conformità edilizia del venditore senza esporsi al rischio di doverne poi rispondere in sede civile.
Per inquadrare la questione, va anzitutto ricordato che l’art. 46, primo comma, del Testo unico dell’edilizia prevede la nullità degli atti inter vivos che trasferiscono diritti reali su edifici costruiti dopo il 17 marzo 1985, ove «non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria» (v. già l’art. 17, primo comma, l. 47/1985 sul condono edilizio).
Com’è ampiamente noto, tale norma ha dato origine a interpretazioni contrastanti, creando incertezze sull’estensione dell’area della c.d. incommerciabilità giuridica conseguente alla nullità. Il conflitto è stato superato con la sentenza n. 8230/2019 delle Sezioni unite della Cassazione, che ha stabilito la validità del contratto qualora un titolo abilitativo esistente relativo all’immobile compravenduto sia incluso nell’atto, ancorché l’immobile sia di fatto difforme dal titolo. Si è così consolidata la tesi della “nullità formale”, la quale respinge l’applicazione estensiva o analogica delle nullità testuali di cui all’art. 1418, terzo comma, c.c., e altresì il ricorrere dell’illiceità dell’oggetto prevista dal comma precedente, in contrasto con la tesi della “nullità sostanziale”.
Tale orientamento rassicura i notai, escludendo che la compravendita di immobili abusivi integri la violazione del divieto di rogare atti proibiti dalla legge ex art. 28 l. not., esponendoli a responsabilità disciplinare (v., in generale, A. Brienza, Articolo 28: sospesi tra nullità, nullità inequivoca e… equivoca, in Federnotizie.it, 2 giugno 2023).
Esclusa l’invalidità, si pone tuttavia il problema di un’eventuale responsabilità civile del notaio nei confronti dell’acquirente, accanto a quella del venditore dell’immobile abusivo. Si tratterebbe, invero, di una responsabilità derivante dalla violazione di obblighi aggiuntivi rispetto a quelli stabiliti dalla legge che, come anticipato, attribuisce al professionista il ruolo di mero “indagatore” della volontà delle parti e di “curatore” dell’atto. Ciò nonostante, una tale responsabilità potrebbe risultare coerente con la richiamata funzione integrativa della buona fede, che impone obblighi di informazione e consulenza a carico del notaio, assegnandogli in ipotesi anche il ruolo di “controllore” della regolarità dell’immobile.
Certo, risulta difficile configurare un siffatto obbligo d’informazione e consiglio gravante su un professionista che ha contezza solo documentale dell’immobile e, anche ove effettuasse un’ispezione, non disporrebbe comunque delle competenze necessarie per stabilire se sia opportuno farne verificare da un tecnico la regolarità edilizia ovvero l’agibilità. Ciononostante, in questa direzione sembrano muoversi alcune pronunce della Cassazione, tra cui l’ordinanza n. 33439/2022 (in Riv. not., 2023, 184 ss., con nota di C. Natoli).
Proprio nella consapevolezza dei limiti delineati – e, dunque, dell’impossibilità di cautelarsi rispetto ad addebiti relativi a compiti estranei alle proprie competenze – si è diffusa tra i notai la prassi di allegare all’atto una cosiddetta relazione sulla regolarità edilizia, redatta da un tecnico, attestante la conformità del fabbricato oggetto di compravendita al titolo abilitativo iniziale e a eventuali titoli legittimanti interventi successivi.
Tale prassi ha ricevuto, in certa misura, un riconoscimento normativo con l’introduzione dell’art. 34-bis nel Testo unico dell’edilizia ad opera del d.l. 77/2020 (c.d. decreto semplificazioni), che disciplina il «certificato di stato legittimo», asseverato da un tecnico abilitato e volto ad attestare la regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile, nonché a documentare difformità minori non qualificabili come abusi.
Il controllo affidato al tecnico rappresenta, in definitiva, il massimo livello di diligenza esigibile dal notaio il quale, evidentemente, non può sostituirsi al perito nella valutazione della regolarità – o dell’agibilità – dell’immobile (cfr., ad es., Cass. n. 14618/2017, in One legale). Proprio per questo, pur potendosi comprendere tale prudente prassi, resta comunque difficile ravvisare in capo al notaio specifici obblighi di informazione e consulenza relativamente a profili estranei alle sue competenze professionali. Va peraltro ribadito che non è la diligenza, in quanto tale, a generare simili obblighi, bensì la clausola generale di buona fede e correttezza, la quale, tuttavia, non sembra potersi spingere a tanto.
Posto, dunque, che il notaio non dovrebbe rispondere nei confronti dell’acquirente per la vendita di un immobile abusivo o inagibile, resta ferma la responsabilità del venditore verso l’acquirente. Rimane, tuttavia, la qualificazione di tale responsabilità.
Secondo un orientamento, riguardante in particolare la mancanza della documentazione attestante l’agibilità dell’immobile (v. P. Tonalini, L’evoluzione del certificato di agibilità dei fabbricati e la prassi notarile, in Federnotizie.it, 15 maggio 2019), tale documentazione rientrerebbe tra i titoli e i documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa che il venditore è tenuto a consegnare all’acquirente ai sensi dell’art. 1477, terzo comma, c.c. (conf., ad es., Cass. n. 2438/2016, in One legale). L’agibilità verrebbe così inquadrata come attestazione dell’idoneità del bene a soddisfare la sua destinazione economico-sociale (cfr. la giurisprudenza a partire da Cass. n. 6542/1985, in Arch. civ., 1986, 408).
Tale orientamento appare tuttavia discutibile, poiché l’obbligo di consegna riguarda i documenti in possesso del venditore relativi allo stato di fatto del bene, e non anche i documenti mancanti, né tanto meno quelli che attestino requisiti che la cosa dovrebbe possedere, ma di fatto non possiede. L’ipotesi in cui difetti la documentazione attestante l’agibilità, pur essendo l’immobile conforme ai requisiti di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico richiesti dall’art. 24 del Testo unico dell’edilizia (c.d. inagibilità formale), va peraltro tenuta distinta – come vedremo – da quella in cui l’immobile ne risulti invece privo (c.d. inagibilità sostanziale), anche sotto il profilo della quantificazione del risarcimento.
Se, dunque, l’inagibilità dell’immobile, formale o sostanziale, non comporta la violazione dell’obbligo di consegna documentale previsto dalla disciplina della vendita, l’inagibilità sostanziale o l’irregolarità dell’immobile, pur in presenza della menzione del titolo edilizio, possono configurare un vizio della cosa vendutaai sensi dell’art. 1490 c.c., rilevare come mancanza di qualità promesse o essenziali al suo uso ex art. 1497 c.c., ovvero risultare quale consegna di una bene diverso, in quanto privo delle caratteristiche minime per essere ricondotto al suo “genere” (c.d. aliud pro alio).
La tesi estensiva, secondo cui sarebbe sufficiente – ai fini dell’integrazione della fattispecie dell’aliud pro alio –il difetto della funzione economico-sociale del bene ovvero della destinazione essenziale voluta dalle parti, pur ampiamente accolta in giurisprudenza, non risulta del tutto convincente. E invero appare criticabile, nonostante la sua diffusione nel “diritto vivente”, l’applicazione stessa della figura dell’aliud pro alio. Il codice del 1942 ha infatti inteso circoscrivere l’ambito di operatività di tale costruzione giurisprudenziale, elaborata nel vigore del codice previgente per sottrarre i vizi particolarmente gravi al rigido regime di prescrizione annuale, previsto per l’azione redibitoria in materia immobiliare dall’art. 1505 cod. prev.
A tal fine, il codice vigente ha introdotto una disciplina specifica per il caso in cui la cosa venduta sia priva delle qualità promesse o di quelle essenziali all’uso a cui è destinata, riconoscendo al compratore il rimedio risolutorio, purché il difetto ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi (art. 1497 c.c.). L’azione resta, tuttavia, soggetta ai termini brevi di decadenza (otto giorni dalla scoperta) e di prescrizione (un anno dalla consegna) previsti dall’art. 1495 c.c. per l’esercizio della garanzia contro i vizi che rendono la cosa inidonea all’uso, o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore, a conferma della volontà legislativa di ricondurre il sistema entro canoni di tipicità e prevedibilità.
In questa prospettiva, la vendita di un immobile inagibile, o di un immobile abusivo nonostante la menzione del titolo edilizio, appare più correttamente riconducibile alla disciplina della mancanza di qualità ex art. 1497 c.c. A tutto concedere, la figura dell’aliud pro alio – quale fattispecie di inadempimento soggetta alla prescrizione ordinaria e priva di termini di decadenza – rimarrebbe così riservata ai soli casi di radicale inidoneità materiale o funzionale del bene a identificarsi nel genus pattuito.
Sulla base delle premesse sin qui svolte, è possibile delineare gli spazi di manovra di cui il notaio può legittimamente avvalersi, senza esporsi a responsabilità, nel modulare la garanzia legale del venditore, tanto in ordine alla conformità urbanistico-edilizia quanto all’inagibilità dell’immobile, in funzione degli interessi concreti delle parti.
Un primo interrogativo concerne l’eventualità che il notaio, con il consenso di entrambe le parti, riduca la portata delle garanzie legali relative alla conformità urbanistico-edilizia e all’agibilità del bene oggetto di compravendita, senza esporsi a responsabilità nei confronti dell’acquirente.
In generale, a favore di tale possibilità milita l’osservazione che una garanzia ex lege tende ad accrescere i costi della transazione secondo la logica astratta propria del tipo contrattuale, ma non necessariamente in linea con la concreta volontà delle parti. L’apertura all’autonomia negoziale in questo ambito consentirebbe, perciò, un’allocazione più efficiente dei rischi e dei costi, favorendo la formazione di un prezzo aderente alla realtà dell’affare, che risulterebbe altrimenti compromesso.
La segnalata esigenza trova conferma nella disciplina codicistica della vendita, che consente alle parti di derogare pattiziamente al regime della garanzia per i vizi “giuridici” – tra cui rientrano l’irregolarità o l’inagibilità dell’immobile – fatta eccezione per la garanzia contro l’evizione, la cui assenza pregiudicherebbe radicalmente lo scambio contrattuale (art. 1487, primo e secondo comma, c.c.). Peraltro, anche la disciplina della garanzia per i vizi “materiali” viene comunemente ritenuta derogabile dalla volontà delle parti (art. 1490, secondo comma, c.c.).
Ritenendo applicabili tali principi anche alla mancanza di qualità promesse o essenziali qui in rilievo, si giunge ad ammettere che il rogito notarile possa limitare, o persino escludere, le garanzie legali relative alla conformità urbanistico-edilizia e all’agibilità, a condizione che anche l’acquirente vi acconsenta, magari per ottenere un prezzo d’acquisto più favorevole. Tale esclusione o limitazione convenzionale, tuttavia, resta priva di effetto, ai sensi dell’art. 1490, secondo comma, c.c., qualora il venditore abbia taciuto in mala fede l’esistenza del vizio (irregolarità o inagibilità). La garanzia è, invece, automaticamente esclusa ex art. 1491 c.c. nel caso in cui il venditore abbia reso noto al compratore l’esistenza del vizio.
In questo modo, il legislatore tutela l’acquirente da comportamenti dolosi, pur lasciando spazio ad accordi negoziali che permettano una maggiore flessibilità e personalizzazione del regime di garanzia.
Dopo aver esaminato il profilo delle limitazioni delle garanzie legali in materia di regolarità urbanistico-edilizia e di agibilità, si può ora affrontare la questione speculare dell’ammissibilità di patti negoziali volti, invece, alla loro estensione. La questione – che attiene, ad esempio, alla possibilità di estendere la durata della garanzia, anche con il consenso del venditore, oltre il termine annuale di prescrizione fissato dall’art. 1495, terzo comma, c.c. – si risolve anch’essa in senso positivo, pur richiedendo un percorso argomentativo più articolato.
In generale, l’idea che la legge predisponga un apparato minimo di garanzie, definito in linea astratta, giustifica la possibilità per le parti di ampliarlo, ad esempio prevedendo un termine di garanzia più esteso, allo scopo di rafforzare la fiducia dell’acquirente nei confronti del venditore. A conferma della facoltà di prolungare la durata delle garanzie tipiche, rileva il fatto che alle parti possano addirittura pattuire garanzie atipiche, riferite a rischi ulteriori rispetto a quelli contemplati dalle garanzie legali.
Un possibile ostacolo normativo potrebbe ravvisarsi nell’art. 2936 c.c., che sancisce l’inderogabilità del regime della prescrizione. Si tratta, tuttavia, di un limite più apparente che reale, se si considera attentamente la natura del termine annuale previsto dall’art. 1495, terzo comma, c.c. – applicabile anche alla mancanza di qualità promesse o essenziali in forza del rinvio di cui all’art. 1497, secondo comma, c.c. Il fatto che l’azione di garanzia per i vizi si prescriva in ogni caso, in un anno dalla consegna, anziché dal momento in cui il vizio si manifesta e il diritto può perciò essere fatto valere (art. 2935 c.c.), induce infatti a ritenere che tale termine, nonostante la qualificazione normativa, non corrisponda alla nozione tecnica di prescrizione disciplinata dal codice civile.
Un’ulteriore conferma in tal senso si ricava dalla previsione contenuta nell’art. 1495, terzo comma, c.c. secondo cui il compratore, convenuto per l’esecuzione del contratto, può far valere la garanzia anche oltre il termine annuale, purché il vizio – tempestivamente denunciato – si sia manifestato entro un anno dalla consegna. Tale indicazione rafforza la convinzione che quel termine non attenga tanto all’esercizio dei rimedi, quanto alla durata del rapporto di garanzia, rendendone così ammissibile un’estensione convenzionale ad opera delle parti, anche oltre il limite annuale stabilito dalla legge.
Delimitato l’ambito entro cui l’autonomia privata può essere esercitata, sotto la supervisione notarile, in relazione alle garanzie del venditore sulla regolarità e agibilità dell’immobile, si può infine svolgere qualche considerazione in merito alla quantificazione del danno risarcibile.
Anche sotto questo profilo, che si aggiunge a quelli illustrati in precedenza, si registra una progressiva, e ormai consolidata, espansione della responsabilità professionale del notaio. A tale riguardo, va tuttavia ricordato che il limite del danno risarcibile è rappresentato anzitutto dal nesso di causalità, così come delineato dall’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento comprende soltanto i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. In concreto, ciò significa che il notaio, debitore della prestazione professionale, è tenuto a risarcire il valore delle utilità che le parti avrebbero conseguito con ragionevole certezza, se questi avesse esattamente adempiuto. Proprio attraverso la rigorosa applicazione di tale giudizio ipotetico si evita il rischio di un’estensione eccessiva o sproporzionata della responsabilità notarile.
Premesso che, per le ragioni esposte, il notaio non dovrebbe rispondere nei confronti dell’acquirente in caso di compravendita di un immobile abusivo o inagibile, anche qualora le parti non abbiano escluso la relativa garanzia, resta comunque necessario distinguere, ai fini della quantificazione del danno risarcibile, tra diverse fattispecie. In questo senso, come chiarito anche dalla più recente giurisprudenza (Cassazione 22 aprile 2025, n. 10449, in De Jure), occorre tenere distinti, sotto il profilo risarcitorio, le due ipotesi di inagibilità prima menzionate: da un lato, l’inagibilità sostanziale, che si configura in assenza del certificato di agibilità e dei presupposti necessari per ottenerlo; dall’altro, l’inagibilità formale, che ricorre quando manca il certificato, pur essendo presenti i requisiti per il suo rilascio.
A questo riguardo, va precisato che il vizio meramente formale non incide sulla commerciabilità del bene, nemmeno sotto il profilo economico. Ne consegue, in primo luogo, l’esclusione della possibilità di risoluzione del contratto di compravendita e, in secondo luogo, che sotto il profilo risarcitorio l’unico danno (emergente) effettivamente patito dall’acquirente è rappresentato dalle spese necessarie per ottenere il rilascio del certificato di agibilità, e non già dal lucro cessante correlato all’eventuale diminuzione di valore dell’immobile acquistato.