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La rinuncia abdicativa al diritto di proprietà è stata nell’ultimo decennio un tema di particolare interesse, che ha più volte sollecitato l’attenzione del giurista, alimentando un vivace dibattito dottrinale.
Già in auge qualche anno fa dopo il parere, reso dall’Avvocatura Generale dello Stato con nota prot. N. 137950 del 14 marzo 2018, con riguardo a episodi di rinuncia alla proprietà da parte di proprietari di “terreni con evidenti problemi di dissesto geologico e relativo rischio di franamento su condomini e strade pubbliche sottostanti”, la rinuncia abdicativa è ritornata di spiccata attualità, passando da ipotesi meramente teorica e accademica a fattispecie dalla grande e sempre più forte rilevanza pratica dopo il recente intervento delle Sezioni Unite (Cassazione Sezioni Unite 11 agosto 2025, Sentenza n. 23093).
In periodi di profonda crisi economica e di conseguente diminuzione di liquidità nella composizione patrimoniale delle famiglie, sempre più spesso i proprietari di immobili si trovano a detenerli non come ricchezza patrimoniale ma come peso economico, che in termini di bilancio familiare, significa solo “passività”: Si pensi agli ingenti costi manutentivi di immobili fatiscenti o pericolanti o agli imponenti oneri fiscali che a volte attanagliano i proprietari, i quali, non riescendo più a sostenerne il peso, cercano in tutti i modi di liberarsene.
In questo contesto la rinuncia abdicativa si rivela strumento idoneo a realizzare tale precipua finalità, sempre però nel rispetto dei principi di legalità.
Si è così assistito in questi ultimi anni ad un ingente aumento del contenzioso tra i proprietari rinuncianti e l’Agenzia del Demanio, sia in sede amministrativa sia in sede civile, con un ritorno importante della giurisprudenza sul tema de quo.
Partendo dalle pronunce dei tribunali, che hanno investito la Suprema Corte della problematica, ed in particolare dai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sopra citata sentenza, il presente contributo, in continuità con quanto in precedenza scritto [“Rinuncia abdicativa al diritto di proprietà” in Federnotizie del 20 giugno 2018 e “Rinuncia abdicativa al diritto di proprietà: continua la “querelle” in Federnotizie del 4 febbraio 2019], si propone di ricostruire i contorni della rinuncia alla proprietà immobiliare, analizzandone le principali correnti di pensiero e, senza pretese di completezza, gli aspetti e le problematiche più rilevanti e che maggiormente coinvolgono il Notaio nello svolgimento delle sue funzioni.
Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi, nell’ambito della risoluzione di questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di L’Aquila con ordinanza del 15 gennaio 2024 e da quello di Venezia con ordinanza del 22 aprile 2024, necessarie alla definizione dei giudizi a quibus (indispensabili antecedenti logico-giuridici per l’esito decisorio dei processi di merito), in un panorama di regnante incertezza giuridica, definiscono finalmente la complessa questione della rinuncia abdicativa, fornendo in modo netto, chiaro e cristallino a proprietari di immobili, operatori del diritto, Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia del Demanio, quelle certezze, da tempo attese, così da ridisegnare i confini dell’istituto, smontando di fatto l’impianto accusatorio dello Stato, mediante l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
“La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, in quanto modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’Art. 832 cod. civ., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione, producendosi ex lege l’effetto riflesso dell’acquisto dello Stato a titolo originario, in forza dell’Art. 827 cod. civ., quale conseguenza della situazione di fatto della vacanza del bene. Ne discende che la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa”, e quindi anche riscontro della meritevolezza dell’interesse perseguito, in sé stessa, e non nell’adesione di un “altro contraente”.”
“Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, appaia, non di meno, animata da un “fine egoistico”, non può comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’Art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo: ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’Art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale”. Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato.”
Nei procedimenti avanti il Tribunale di L’Aquila e avanti il Tribunale di Venezia il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e l’Agenzia del Demanio agiscono in giudizio al fine di ottenere la declaratoria di nullità, invalidità ed in ogni caso inefficacia nei confronti dello Stato degli atti di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare.
In punto di diritto, le amministrazioni attrici rilevano, in primo luogo l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una generica facoltà di rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare (Inammissibilità della rinuncia abdicativa in generale).
In subordine, eccepiscono comunque la nullità dell’atto di rinuncia, attesa la non meritevolezza e/o illiceità della causa in concreto, ex 1322 e 1343 c.c.
In ulteriore subordine, considerano nulla la rinuncia abdicativa e dunque priva di effetti pregiudizievoli nei confronti dello Stato per illiceità del motivo (ai sensi dell’Art. 1345 c.c.), per essere l’operazione realizzata in frode alla legge (a mente dell’Art. 1344 c.c.)
Il Tribunale di L’Aquila con ordinanza del 15 gennaio 2024 e quello di Venezia con ordinanza del 22 aprile 2024 hanno così disposto il rinvio pregiudiziale ex Art. 363- bis c.p.c. alla Suprema Corte di Cassazione per la risoluzione di due questioni di diritto, una relativa all’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili, l’altra relativa all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto.
In entrambe le fattispecie, vi era stata la rinuncia da parte di privati a terreni inservibili e privi di reale valore economico. Più precisamente con riferimento al caso avanti il Tribunale di L’Aquila, sussisteva un vincolo di pericolosità elevata in base al piano di assetto idrogeologico redatto dalla regione Abruzzo; quanto invece al caso avanti il Tribunale di Venezia, il fondo rientrava in una zona definita di dissesto franoso esposto a rischio di smottamenti o eventi franosi.
Secondo le amministrazioni attrici il fine perseguito dai rinuncianti era solo egoistico e precisamente quello di addossare sulla collettività i costi e le responsabilità di gestione, manutenzione e messa in sicurezza di immobili “problematici” con conseguente violazione di fondamentali principi costituzionali: la rinuncia abdicativa sarebbe in contrasto con la “funzione sociale” della proprietà sancita dall’Art. 42 della Costituzione e con gli inderogabili doveri di solidarietà economica e sociale di cui all’Art. 2 della Costituzione.
Ritenuti ammissibili i rinvii pregiudiziali promossi dai predetti tribunali, i relativi procedimenti venivano sospesi in attesa dell’enunciazione dei principi di diritto da parte delle Sezioni Unite della Cassazione.
Quanto ai presupposti dei rinvii, occorre ricordare come il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale di cui all’Art. 363- bis c.p.c. preveda che “Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni: 1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione; 2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative; 3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi“.
Sicuramente con riguardo al primo presupposto previsto dalla norma, la questione relativa all’ammissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare non è mai stata direttamente affrontata da alcuna pronuncia da parte della Corte di Cassazione, come pure l’individuazione dei limiti di sindacabilità dell’atto di autonomia negoziale del privato da parte dell’Autorità giudiziaria.
Nel procedimento instaurato avanti alla Suprema Corte:
“la rinuncia al diritto di proprietà immobiliare è ammissibile, quale atto negoziale in cui si estrinseca lo statuto proprietario. Il relativo negozio unilaterale a carattere abdicativo, non traslativo, non recettizio, irrevocabile, sottoposto a forma scritta ad substantiam e trascrivibile esclusivamente contro il rinunciante, comporta ipso iure l’acquisizione a titolo originario da parte dello Stato del bene oggetto di rinuncia ex Art. 827 c.c. Esso è comunque soggetto a un giudizio di meritevolezza agganciato ai valori costituzionali, fondanti l’ordinamento giuridico, e al rispetto del diritto europeo, di modo che il negozio unilaterale di rinuncia abdicativa del diritto di proprietà immobiliare in casi eccezionali può essere considerato immeritevole di tutela e, quindi, nullo se consista in un’operazione economica che si ponga in netto e irriducibile contrasto con gli interessi pubblici, collettivi e generali espressi dalla Costituzione e dai Trattati europei e concretantisi, in particolare, nel principio costituzionale della parità di bilancio e dei relativi vincoli europei di bilancio, senza che a tal fine sia sufficiente il mero perseguimento da parte del rinunciante di un fine egoistico“.
“(o)ve si ritenga la ammissibilità, in astratto, della c.d. rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, ed ove si ritenga che tale rinuncia possa comportare l’acquisto dell’immobile ex Art. 827 c.c. in capo allo Stato senza necessità di accettazione da parte di quest’ultimo, ed al di fuori dello strumento della donazione, con tutte le relative formalità, accertare e dichiarare:
i. che il terzo rinunciante ha l’obbligo giuridico di comunicare l’atto di rinuncia allo Stato (e per esso alla competente Direzione Regionale dell’Agenzia del Demanio);
ii. e che l’articolo 827 c.c., in base ad una doverosa lettura adeguatrice costituzionalmente orientata, deve essere interpretato nel senso che allo Stato spetta il potere di rifiuto eliminativo dell’acquisto, con efficacia ex tunc.
In via del tutto subordinata, accertare e dichiarare:
che, ogni qualvolta l’atto di rinuncia venisse posto in essere dal privato al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex Art. 827 c.c. – e dunque in capo alla collettività intera – i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale: cfr. Art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile, tale atto di rinuncia sarebbe nullo:
in via principale:
a.) in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c.;
in subordine:
b.) per illiceità del motivo (ai sensi dell’Art. 1345 c.c.);
in ulteriore subordine:
c.) per essere l’operazione realizzata in frode alla legge (a mente dell’Art. 1344 c.c.);
in via ulteriormente gradata:
d.) perché compiuta in violazione del divieto di abuso del diritto ex Art. 833 c.c.;
In tutte le ipotesi, accertare e dichiarare, infine, che:
il rinunziante continua a rispondere nei confronti dei terzi delle obbligazioni risarcitorie derivanti dalle proprie condotte passate (commissive e/o omissive)“.
Di seguito i punti cardine della sentenza, la cui architettura, imperniata sulla particolare natura giuridica della rinuncia, scolpisce principi di portata storica nel nostro ordinamento.
Le questioni rimesse dai Tribunali di L’Aquila e di Venezia inducono a riflettere preliminarmente sulla portata del “diritto di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, enunciato dall’Art. 832 del c.c., e sulla configurabilità di un “limite”, da rinvenire nella legge, a norma dell’Art. 42, secondo comma della Costituzione, alla possibilità giuridica di rinunciare alla titolarità dell’immobile. Tale limite dovrebbe permeare il contenuto del diritto stesso, così ricadendo sulla rilevanza dell’atto abdicativo.
La facoltà di disporre, che pur l’Art. 832 c.c. si preoccupa di specificare nella definizione del contenuto della proprietà, è, per il vero, caratteristica normale di tutti i diritti patrimoniali, traducendosi, di regola, nella possibilità di trasferire la situazione giuridica ad altro soggetto, in modo da realizzarne il valore. La facoltà di disposizione, intesa come possibilità di alienare, non è, dunque, caratteristica tipizzante del solo diritto di proprietà (si pensi al divieto di cessione di cui all’Art. 1024 c.c.).
Peraltro, anche l’Art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si apre enunciando che “(o)gni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità”.
Che l’utilità di scambio in cui si sostanzia il “diritto di disporre” non sia tratto fisionomico della proprietà lo si ricava, secondo alcune letture, anche dall’ambito di estensione del divieto di alienazione ex Art. 1379 c.c., ove lo stesso non si reputi limitato al solo diritto di proprietà.
L’esercizio della facoltà di disporre della proprietà non implica nemmeno necessariamente lo scambio con un suo corrispettivo. Il pensiero va in proposito alla donazione, oltre che, come dai più si assume, proprio alla rinuncia del diritto.
Si evidenzia, in ogni modo, che l’idoneità di una cosa a formare oggetto del diritto di proprietà implica essenzialmente che essa possa essere sia trasferita a terzi, ovvero scambiata con altre cose, sia rinunciata da parte del titolare.
Pure le sentenze delle Sezioni Unite del 15 novembre 2022, n. 33645 e n. 33659, hanno spiegato il diritto “di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, ex Art. 832 c.c., non come limitato allo “jus vendendi”, ma come potere di scegliere le possibili destinazioni del bene e di modificarne l’organizzazione produttiva, recependone la definizione quale “profilo più intenso del diritto di godere”.
Il tema in esame coinvolge, dunque, anche la concorrente facoltà di “godere” delle cose, parimenti elevata dall’Art. 832 c.c. a contenuto della proprietà, e che si spiega come attuazione, ad opera del titolare, dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione di attribuzione tra soggetto e bene. Si tratta di facoltà evidentemente non scissa da quella di disporre della cosa, tant’è che viene spiegata come potere di scegliere la destinazione economica da imprimere ad essa e di utilizzarla in modo oggettivamente apprezzabile.
Nel valutare la meritevolezza della scelta di destinazione e di utilizzazione del singolo bene operata dal proprietario viene in primo piano il principio dettato dall’Art. 42, secondo comma, Cost., che chiede alla legge di riconoscere e garantire la proprietà privata determinandone i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la “funzione sociale”. In dottrina si è rimarcato che il precetto costituzionale, in tal modo, ha richiesto alla legge ordinaria di disciplinare l’intera materia della proprietà privata, riferendosi tanto ai “modi d’acquisto” (e quindi al regime dell’appartenenza ed alle sue vicende: acquisto, modificazione, estinzione, diritti parziali), quanto ai “modi di godimento” (e cioè alla fruizione rimessa al titolare, come anche alla “utilizzazione” correlata agli atti autoritativi aventi effetti conformativi della proprietà privata) ed infine ai “limiti” (che fanno rinvio alla conformazione del contenuto del diritto di proprietà realizzato dalla legge).
Al riguardo, la Corte costituzionale ha spiegato che “(l)’Art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la “funzione sociale”. Tuttavia, si è anche chiarito che l’Art. 42, secondo comma, Cost., non ha “trasformato la proprietà privata in una funzione pubblica“: piuttosto, la Costituzione “ha chiaramente continuato a considerare la proprietà privata come un diritto soggettivo, ma ha affidato al legislatore ordinario il compito di introdurre, a seguito delle opportune valutazioni e dei necessari bilanciamenti dei diversi interessi, quei limiti che ne assicurano la funzione sociale”.
La concezione della funzione sociale della proprietà come strumento attuativo della soddisfazione di interessi generali, e non dell’interesse economico individuale del titolare, svolge il suo ruolo mediante limitazioni legali delle facoltà di disposizione e di godimento che si giustificano per intere categorie di beni, inserendosi nella struttura del diritto e vincolandolo indissolubilmente ad un esercizio conformato.
Se la “funzione sociale” “esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel suo interesse, il dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione” (Corte cost. 23 aprile 1986, n. 108; Corte cost. 30 aprile 2015, n. 71), non vi è, comunque, un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale” legati alla affermazione della responsabilità per l’uso dannoso del bene.
Dalla cornice ordinamentale non emerge, dunque, un generale potere-dovere del proprietario di esercitare i suoi poteri in maniera “funzionale” al sistema socio-economico: il godimento del bene resta forma di esercizio del diritto di proprietà appartenente al titolare per il soddisfacimento di un interesse patrimoniale da lui disponibile.
Non è indispensabile verificare se la pienezza e l’esclusività del “diritto di godere e disporre” attribuito al proprietario comprendano anche il potere di abbandonare la cosa.
La condizione di abbandono rileva per i beni mobili, nel senso che la derelizione comporta quale effetto legale la perdita della proprietà e consente il successivo acquisto a titolo originario in capo all’occupante (Art. 923 c.c.). Si tratta di fattispecie estintiva e (eventualmente) acquisitiva della proprietà estranea alla categoria dei beni immobili per i vincoli formali prescritti dagli artt. 1350, n. 5, e 2643, n. 5, c.c. Nella rinuncia alla proprietà immobiliare al fine del prodursi dell’effetto abdicativo non basta il comportamento materiale dell’abbandono (sia pur accompagnato dall’animus derelinquendi), ma occorre comunque il compimento di un atto dispositivo.
Quando, peraltro, l’ordinamento pone divieti ai proprietari di disporre di determinati beni mediante abbandono incontrollato degli stessi, la illegittimità della condotta dismissiva viene affermata non già sindacando l’abusività dell’atto di abdicazione, rientrante nel contenuto del diritto di proprietà, ma per la violazione di norme imperative di ordine pubblico, che, in via generale ed astratta, esprimono scelte tassative che il legislatore ha ritenuto essenziali ed irrinunciabili per gli interessi della collettività.
Sempre con riguardo al tema dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa, si ricorda come in dottrina si fronteggiano due principali orientamenti, l’uno favorevole (prevalente) e l’altro contrario.
La tesi favorevole, argomentando da una serie di indici normativi – in particolare, dagli Artt. 827, 1118, comma II, 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c. -, propende per l’ammissibilità in generale dell’istituto, arrivando a concludere che si tratta di un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette una situazione giuridica di cui è titolare, ovvero un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso.
Secondo questa ricostruzione, infatti, gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi sono solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto. Tant’è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia c.d. traslativa (propria delle fattispecie di c.d. abbandono liberatorio, di cui agli Artt. 1170, 882, 550 e 1004 c.c., in cui la rinuncia alla proprietà del bene immobile non ne produce la “vacanza”, ma l’acquisto della sua titolarità in capo, rispettivamente, al proprietario del fondo dominante, al proprietario confinante, agli altri eredi o legatari e agli altri comproprietari) proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale. Ne segue che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge, senza che per il suo perfezionamento sia richiesto, pertanto, l’intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato.
In particolare, un primo argomento a favore di tale orientamento trae spunto dalle previsioni contenute nell’Art. 1350 n. 5 c.c., il quale richiede a pena di nullità la forma scritta per “‘gli atti di rinunzia ai diritti indicati ai numeri precedenti”, e nell’Art. 2643 n. 5 c.c., che analogamente indica tra gli atti soggetti a trascrizione “gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti”. In entrambi i casi, infatti, tra i “numeri precedenti” (e precisamente al n. 1) è inclusa “la proprietà di beni immobili”, in guisa tale da sottendere la possibilità, in linea generale, di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà su beni immobili.
Ulteriore elemento che depone in favore della generale ammissibilità dell’istituto in parola sarebbe ricavabile dall’Art. 1118, comma II, c.c.. Tale norma, infatti, nel prevedere che “Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”, ancora una volta presuppone la possibilità di rinunciare, in linea generale, al diritto dominicale sugli immobili, altrimenti risultando superflua la previsione che espressamente esclude la rinunziabilità del diritto sulle parti comuni.
Decisiva, infine, sarebbe la presenza dell’Art. 827 c.c., rubricato significativamente “Beni immobili vacanti”, secondo cui “I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”, presupponendo, dunque, che possano esistere beni immobili privi di proprietario, ossia vacanti. Contrariamente a quanto sostenuto da una parte della dottrina, inoltre, la disposizione in parola non potrebbe considerarsi norma residuale, finalizzata a dare “copertura” a fattispecie imprevedibili ed estreme, come ad esempio l’emersione di una nuova isola in acque territoriali, ma esprimerebbe piuttosto un principio cardine del sistema, che prevede l’intervento dello Stato laddove non sia esigibile la prestazione richiesta al singolo privato.
Il principio in parola, secondo tale prospettazione, sarebbe pacificamente rinvenibile anche in materia successoria, laddove l’Art. 586 c.c. dispone che in mancanza di successibili l’eredità – comprensiva di beni immobili – è devoluta allo Stato, l’acquisto opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia.
L’orientamento che nega cittadinanza nel nostro ordinamento alla rinuncia abdicativa del diritto di proprietà immobiliare, muove da una diversa interpretazione delle medesime disposizioni sopra richiamate.
In particolare, l’Art. 1350 c.c. è denominato “Della forma del contratto”, e si riferisce ai contratti, sicché il n. 5 di tale disposizione dovrebbe riferirsi comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunzia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto, automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante.
Si tratterebbe, dunque, di una ipotesi di rinunzia traslativa, alla quale le parti possono ricorrere sia in esecuzione della concordata risoluzione di un precedente contratto traslativo della proprietà su beni immobili – dalla quale consegue il venir meno delle obbligazioni contrattuali per entrambe le parti -, sia in esecuzione di una pattuizione che preveda il venir meno degli effetti del contratto precedentemente concluso per una sola delle parti, in questo caso del solo rinunziante.
Considerazioni analoghe varrebbero per l’Art. 2643 n. 5: nei numeri da I a 4 la disposizione contempla infatti i “contratti” che abbiano ad oggetto determinati diritti reali, tra i quali anche la proprietà immobiliare. Ciò lascerebbe supporre che il n. 5, richiamando “i diritti menzionati ai numeri precedenti” non intenda semplicemente richiamare i diritti in sé, ma i diritti nascenti da determinati contratti. Ne consegue che “gli atti tra vivi di rinunzia” di cui al n. 5 sarebbero finalizzati, semplicemente, a far venir meno l’efficacia, in tutto o in parte, di precedenti contratti che hanno costituito, modificato o trasferito diritti reali immobiliari, conseguendo in particolare da tali atti di rinunzia che la proprietà su un certo immobile torna nella disponibilità del dante causa del rinunziante.
Per quanto riguarda la previsione di cui all’Art. 1118 comma II c.c., il divieto al condomino di rinunziare al suo diritto sulle cose comuni si spiegherebbe con il fatto che in materia di proprietà comune vige, in generale, il principio opposto, questo chiaramente enunciato all’Art. 1104 comma I, c.c., secondo cui “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”, principio che si trova ribadito anche dall’Art. 882 comma II c.c. in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune.
In queste situazioni, dunque, si determinerebbe una c.d. rinuncia liberatoria, in quanto il bene immobile oggetto di rinunzia non rimarrebbe acefalo perché si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune.
Secondo tale prospettazione, dovrebbero svolgersi considerazioni simili per tutte quelle varie tipologie di rinunzia che il c.c. ammette espressamente con riferimento ai diritti immobiliari, da molti ritenute di natura “abdicativa”, sebbene in realtà limitate in funzione della migliore gestione del bene.
Infine, neppure l’Art. 827 c.c. offrirebbe validi e risolutivi argomenti a sostegno del recepimento generalizzato, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare. Tale norma, infatti, sembrerebbe essere stata introdotta nel c.c. semplicemente quale disposizione di “chiusura”, ad evitare che possano esistere beni immobili acefali e come tali acquisibili per “occupazione” da parte di chiunque, atteso che l’occupazione della res nullius è un modo di acquisto della proprietà valevole solo per i beni mobili (ex Art. 923 c.c.).
Tutta la disciplina codicistica riguardante i modi di acquisto della proprietà, dunque, dimostrerebbe che il legislatore ha piuttosto cercato di evitare le situazioni in cui beni immobili possano venire a trovarsi privi di un proprietario.
La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto unilaterale e non recettizio, a carattere abdicativo e non traslativo, con il quale un soggetto (il rinunciante), nell’esercizio di una facoltà, dismette, “abdica”, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti “trasferimento” del diritto in capo ad altro soggetto né automatica estinzione dello stesso.
Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono, infatti, solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto, tant’è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia c.d. traslativa, proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce “ipso iure”, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge.
Per il suo perfezionamento non è, pertanto, richiesto l’intervento né l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato: si perfeziona con la sola manifestazione di volontà del proprietario. La sua efficacia non dipende dal fatto che venga portato a conoscenza del destinatario.
Se la rinuncia è un negozio unilaterale non le si può applicare, come conseguenza, quanto previsto dal legislatore in tema di contratti con la conseguenza che concetti come “meritevolezza” degli interessi ai sensi dell’Art. 1322 c.c. (che riguarda i contratti atipici) o il presunto “potere di rifiuto” dello Stato (tipico delle proposte contrattuali, come nell’Art. 1333 c.c.) diventano di fatto inconferenti.
La circostanza che gli atti di rinuncia contengano clausole nelle quali si preveda espressamente l’acquisto dello Stato ai sensi dell’Art. 827 c.c., non denota per ciò solo una caratterizzazione quale manifestazione di volontà dei rinuncianti rivolta a produrre tale effetto. Queste clausole risultano al più ricognitive della spettanza ex lege degli immobili rinunciati al patrimonio dello Stato, essendosene verificati i presupposti: esse, cioè, costituiscono la mera ricognizione del verificarsi di un effetto legale e non realizzano un negozio bilaterale traslativo della proprietà, che abbia bisogno del consenso dell’acquirente.
La prescrizione di un onere comunicativo in capo al rinunciante (si veda in tal senso, da ultimo, Comunicazione del Ministero della Giustizia Ufficio centrale degli Archivi notarili del 25 settembre 2025, con cui si invitano “i Consigli Notarili ad adoperarsi affinchè i propri iscritti che riceveranno (o abbiano ricevito) atti di rinuncia alla proprietà immobiliare verifichino che ne sia data comunicazione al competente ufficio dell’Agenzia del Demanio, al fine di consentire a quest’ultimo di adottare tutte le iniziative opportune anche a tutela della pubblica incolumità”) inerisce non al campo delle regole di validità e di efficacia della rinuncia, quanto a quello delle regole di comportamento, che possono essere soltanto fonte di responsabilità.
In sintesi, l’unilateralità e non recettizietà sono conseguenze dell’interesse individuale che la rinuncia realizza con la dichiarazione del titolare del diritto soggettivo diretta unicamente a dismettere il medesimo. Tale dichiarazione, diversamente dai beni mobili per i quali è sufficiente l’abbandono, va manifestata nel mondo esterno perché produca il suo effetto mediante atto pubblico o scrittura privata e va trascritta perché sia opponibile a determinati terzi, ma non deve rivolgersi ad una determinata persona perché ne abbia conoscenza, seppure si tratti di persona interessata alla rinuncia.
La rinuncia alla proprietà immobiliare è atto, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, senza interessarsi della destinazione del bene e del suo contestuale, o successivo, eventuale acquisto da parte di altro soggetto. Ciò in quanto essa costituisce modalità di esercizio e di attuazione della facoltà di disporre della cosa accordata dall’Art. 832 c.c., realizzatrice dell’interesse patrimoniale del titolare protetto dalla relazione assoluta di attribuzione.
La rinuncia alla proprietà immobiliare “trova causa” (e quindi anche la propugnata meritevolezza dell’interesse perseguito) in sé stessa, non già nell’atto di un “altro contraente” cui sia destinata, né, del resto, produce un vincolo contrattuale. Si tratta di una forma attuativa del potere di disposizione del proprietario che non è soggetta dalla legge ad alcun espresso limite di scopo, come sarebbe altrimenti consentito dall’Art. 42, secondo comma, della Costituzione, ove si ravvisasse un immediato controinteressato che, a tutela della propria sfera giuridica, potesse opporre il veto all’effetto abdicativo, in maniera da costringere il rinunciante a rimanere titolare della proprietà.
La sua funzione economico-sociale non è quella di trasferire il bene allo Stato o di ottenere un vantaggio da un terzo ma è semplicemente quella di dismettere un diritto. Si tratta della pura espressione del potere dispositivo che l’Art. 832 c.c. conferisce al proprietario.
Non possono pertanto condividersi i dubbi sulla atipicità dell’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, che si vorrebbe non espressamente consentita dalla legge.
È risaputa la consueta obiezione, mossa al riguardo, che fa leva sulla lettera degli Artt. 1350, n. 5 e 2643, n. 5, c.c. e sulla ratio degli Artt. 827 e 923 c.c.
Sono altrettanto ricorrenti le repliche che ricavano la rinunciabilità della proprietà dalla sua struttura di diritto assoluto di natura patrimoniale, la cui persistente titolarità non è destinata a soddisfare l’interesse antagonistico diretto di alcun altro soggetto del rapporto.
Quello che appare metodologicamente errato è ricercare nella legge non un esplicito divieto di rinunciare alla proprietà delle cose, o di alcune cose, quanto, al contrario, una positiva affermazione che la proprietà possa essere rinunciata.
Dal vigente regime ordinamentale di appartenenza dei beni, ricavabile dal secondo e dal terzo comma dell’Art. 42 Cost., dall’Art. 1 del Protocollo I addizionale della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dall’Art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, pur restando escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato, spetterebbe comunque al legislatore adottare una restrizione o imporre addirittura una esclusione della facoltà di rinunciarvi.
La irrinunciabilità della proprietà non può, del resto, tramutarsi in un sacrificio illimitato e perpetuo del potere di realizzare il valore del bene e di attuare l’interesse patrimoniale a sceglierne la destinazione economica, allo scopo esclusivo di vincolare il proprietario a continuare a sostenerne i costi di gestione altrimenti gravanti sulla collettività, così trasformando la proprietà privata in una funzione pubblica.
La rinuncia, secondo la dottrina prevalente, è un negozio giuridico con causa “neutra” che produce effetti tipici immediati.
In relazione alla causa della rinuncia, vi sono in dottrina diverse interpretazioni e teorie. Secondo l’orientamento preferibile, la rinuncia ha una propria causa tipica. Se infatti, facciamo riferimento solo al nucleo essenziale della rinuncia, emerge come la causa in questione consista nella mera dismissione di un diritto da parte del titolare al solo scopo di separare il proprio patrimonio da un diritto di cui si vuole liberare.
Lo Stato acquista automaticamente e a titolo originario la proprietà dell’immobile, quale effetto riflesso della dismissione verificatasi con la rinuncia e precisamente in forza dell’Art. 827 c.c., quale conseguenza della situazione di fatto della “vacanza” del bene. Trattasi di acquisto a titolo originario e non derivativo, che scaturisce da una situazione di fatto (la vacanza del bene) e non da un rapporto con il precedente titolare ossia non perché il rinunciante trasferisce il bene: il bene è vacante a seguito della rinuncia. Lo Stato non acquista perché il privato glielo trasferisce ma perché la legge prevede che un immobile vacante entri a far parte del patrimonio dello Stato.
L’acuta distinzione tra “titolarità” e “spettanza” della proprietà, fondata sul tenore letterale dell’Art. 827 c.c., dal quale si desumerebbe che “spetta” allo Stato una verifica del fondamento dell’acquisto, non permette comunque di ravvisare una soggezione del rinunciante ad un diritto potestativo dell’amministrazione statale, esercitabile mediante manifestazione unilaterale della volontà di impedire a quello di escludere il bene dal suo patrimonio e di aderire all’effetto dell’ingresso dell’immobile nel dominio pubblico.
Si osserva, ancora, che, mentre l’Art. 586 c.c., prescrivendo l’acquisto dell’eredità da parte dello Stato, in mancanza di successibili, è una disposizione inevitabile, imposta dalla morte e dalla necessità di dare seguito ai rapporti giuridici già facenti capo al de cuius, la rinuncia abdicativa alla proprietà è atto volontario. Deriva, tuttavia, da un’opzione anche il regime di acquisto pubblico creato nell’Art. 827 c.c., avendo l’ordinamento esplicitato mediante esso una funzione sovrana dello Stato sul territorio, ispirata da un ravvisato interesse pubblico a che gli immobili vacanti non diventino res nullius liberamente occupabili dai privati. È il legislatore che, per i beni immobili, a differenza di quanto stabilito dall’Art. 923 c.c. per le cose mobili abbandonate (ove l’acquisto a titolo originario postula un comportamento apprensivo che si sostanzia nell’occupazione), fa seguire alla rinuncia alla proprietà ed al suo effetto dismissivo del diritto la condizione dell’acquisizione legale a titolo originario in favore dello Stato, senza che quest’ultimo sia chiamato a svolgere alcuna attività positiva di accettazione o di impossessamento.
All’Art. 827 c.c. è stato attribuito il ruolo di vera e propria “clausola di chiusura” dello statuto dell’appartenenza proprietaria in campo di immobili, sancendo la titolarità statale di ogni bene immobile privo, per qualsiasi ragione, di un proprietario, fatta eccezione per i beni immobili vacanti esistenti in Sicilia (Art. 34 Statuto), in Sardegna (Art. 14 3° comma Statuto) e nel Trentino Alto Adige (Art. 58 4° comma Statuto) che appartengono al patrimonio regionale.
Estraneo al nucleo fondamentale del dubbio interpretativo posto dai Tribunali rimettenti è anche il dibattito sulle fattispecie di c.d. “abbandono liberatorio” (indicativamente, Artt. 882, 963, 1104, 1070 c.c.), che, pur nelle peculiarità delle singole ipotesi normative, si caratterizzano per il tratto distintivo del perseguimento di una funzione che va oltre l’abdicazione e consiste nella liberazione da un’obbligazione connessa alla cosa, la quale deve essere adempiuta dal titolare del medesimo diritto reale che si dismette e nasce a carico di quest’ultimo nel momento in cui si verifica la circostanza prevista dalla legge per il suo sorgere, sicché, venuto meno lo “ius ad rem” che consente l’identificazione del soggetto debitore, vien meno anche la causa obligandi.
Pur convenendo con l’impostazione che la liberazione dall’obbligo di contribuire alle spese costituisce pur sempre un effetto e non la causa di queste fattispecie abdicative, quel che connota le stesse è l’interesse rilevante di altri soggetti (il comproprietario, il concedente, il proprietario del fondo dominante), i quali sono investiti a loro volta di un autonomo diritto reale ad utilizzare il medesimo bene.
Si parla perciò, con riguardo alle figure di “abbandono liberatorio”, di rinunce qualitativamente diverse dalla rinuncia alla proprietà esclusiva, incidendo esse inevitabilmente, mediante acquisto o “accrescimento” ope legis, nella sfera giuridica di un altro soggetto del rapporto reale.
Quando le Sezioni Unite, con le sentenze del 10 giugno 1988, nn. da 3940 a 3946, rese nell’ambito del contenzioso sugli effetti della illegittima occupazione e radicale trasformazione di fondi privati per la costruzione di opere pubbliche, presero in esame le “varie ipotesi, normativamente previste, di abbandono del proprio diritto (Art. 550, 1070, 1104 c.c.)”, sottolinearono che “la rinunzia del proprietario assume costantemente carattere di gratuità, di volontaria accettazione, cioè, di una decurtazione del proprio patrimonio, sia pure in vista di evitare spese od oneri maggiori; ma non può mai tradursi in strumento per immutare nel patrimonio stesso una sua componente sostituendo al bene immobile dereliquendo il suo controvalore monetario ed imponendo ad altri il prestarsi a tanto mercé una sorta di acquisto coattivo”.
Le ipotesi di abbandono liberatorio realizzano, dunque, prioritariamente – e non come mero effetto riflesso della rinuncia al diritto reale – una funzione estintiva rispetto ad obbligazioni che sono a carico del rinunciante, e si connotano come vicenda estintiva (e non anche mediatamente traslativa) di una posizione soggettiva complessa del medesimo dichiarante. Ciò ne segna anche il tratto distintivo rispetto alle facoltà di “cessione” di cui agli Artt. 888 e 1128, quarto comma, c.c., le quali realizzano, piuttosto, una esplicita funzione traslativa di natura reale.
La qualificazione, ricostruzione della rinunzia abdicativa alla proprietà come negozio unilaterale, diretto unicamente alla dismissione del diritto, senza effetti traslativi, che comporta l’acquisto in capo allo Stato, non come effetto negoziale voluto dal rinunziante, ma come effetto automatico ex lege, fa escludere, in radice, la possibilità di un atto di rifiuto da parte dello Stato. L’acquisto, infatti, non è correlato alla volontà del rinunciante, ma è imposto dalla legge ex Art. 827 c.c. e l’ordinamento giuridico non ammette l’esistenza di immobili ”vacanti”.
Ad avvalorare tale tesi, depone, poi, anche quanto previsto nell’ambito “mortis causa” dall’Art. 586 c.c.: “L’acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia” da parte dello Stato.
Secondo la Suprema Corte l’acquisto ex lege dei beni immobili vacanti da parte dello Stato, senza che sia riconosciuto un “potere di rifiuto eliminativo”, non si pone affatto di per sé in contrasto con i principi fondamentali della solidarietà e dell’uguaglianza economica e sociale, non consente lo svolgimento di alcuna forma di esercizio della libertà di iniziativa economica in contrasto con l’utilità sociale, né arreca un vulnus ai principi del buon andamento finanziario e della programmazione dell’attività amministrativa. I dubbi dedotti in proposito dalle difese delle amministrazioni statali si risolvono in inconvenienti di fatto, come tali inidonei a incidere sulla lamentata lesione di parametri costituzionali.
In ordine alla possibilità di revoca della rinunzia, la risposta è strettamente collegata alla natura recettizia che si voglia riconoscere o meno al negozio di rinuncia abdicativa.
Qualora si ritenga, con la dottrina prevalente, che la rinuncia sia un negozio unilaterale non recettizio, non sembra possibile una revoca della rinuncia, stante l’acquisto automatico del diritto già verificatosi in capo allo Stato.
Se fosse consentito revocare l’atto dismissivo, vi sarebbe una sorta di invasione nella sfera giuridica altrui, che consentirebbe di privare unilateralmente un soggetto della titolarità del diritto da lui acquisito (anche a titolo originario), il che contrasterebbe con i principali diritti e le principali garanzie costituzionali.
Da ultimo qualora fosse possibile la revoca, si svuoterebbe di ogni certezza la portata normativa dell’Art. 827 c.c. il quale vuole garantire la presenza di un soggetto (lo Stato), titolare del diritto, stante l’impossibilità di “res nullius”.
Sul punto, non appare predicabile che la rinuncia alla proprietà di un immobile sia valida, e che perciò provochi quella situazione di vacanza presupposta dalla legge ai fini dell’acquisizione al patrimonio dello Stato, solo se il bene sia “non inutile”, ovvero “conveniente”, in base al suo valore economico, come se dovessero valutarsi i vantaggi di una prestazione in relazione al sacrificio provocato da una prevista controprestazione.
Tanto la rinuncia del privato proprietario, quanto l’acquisto dello Stato, rilevano in funzione della realizzazione di interessi che costituiscono un prius rispetto alla qualificazione giuridica delle rispettive fattispecie, prescindendo dal fatto che abbiano ad oggetto un bene utile, o profittevole, in termini di valore economico puramente soggettivo, e che l’uno e l’altro abbiano un plausibile interesse, rispettivamente, a dismetterlo e ad acquisirlo e conservarlo. La relazione di proprietà tutelata dall’ordinamento intercorre in via diretta e immediata tra soggetto e bene corporale, indipendentemente dal valore d’uso di quest’ultimo.
La rinuncia alla proprietà immobiliare persegue l’unica finalità tipica di dismettere il diritto e regola unicamente l’interesse patrimoniale del proprietario, senza che abbiano rilievo interessi pratici del dominus diversi dall’intenzione puramente abdicatoria, e senza richiedere che alcun altro soggetto controinteressato alla rinuncia ne abbia conoscenza o vi presti assenso, altrimenti costringendo il rinunciante a rimanere proprietario.
I motivi personali o economici del rinunziante sono irrilevanti ai fini della validità dell’atto con la conseguenza che il Notaio potrà ricevere tali atti senza timori di future contestazioni sulla loro validità intrinseca.
L’atto di rinuncia alla proprietà di un immobile non è causalmente rivolto alla costituzione di un nuovo rapporto giuridico in cui la titolarità del bene è attribuita all’amministrazione statale. Lo Stato diventa proprietario dopo che è venuta meno la precedente relazione di attribuzione tra il soggetto e la situazione giuridica di proprietà. L’acquisizione al patrimonio disponibile dello Stato trova, perciò, il proprio titolo costitutivo nella vacanza, e non nella rinuncia.
Neppure condiziona l’efficacia immediata della rinuncia, restando dato comunque esterno al perfezionamento della fattispecie abdicativa, la questione inerente alla automaticità dell’acquisto dello Stato, o piuttosto alla procedimentalizzazione di quest’ultimo, che postulerebbe una fase valutativa della convenienza dell’acquisizione dell’immobile al patrimonio pubblico.
Allorché la rinuncia alla proprietà immobiliare, atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario funzionalmente diretto alla perdita del diritto, apparisse, non di meno, animata da un “fine egoistico”, non potrebbe comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’Art. 42, secondo comma, Cost., o di nullità per illiceità della causa o del motivo. Ciò sia perché le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, devono essere stabilite dal legislatore, sia perché non può ricavarsi dall’Art. 42, secondo comma, Cost., un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale”. Inoltre, esprimendo la rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile essenzialmente l’interesse negativo del proprietario a disfarsi delle titolarità del bene, non è configurabile un abuso di tale atto di esercizio della facoltà dominicale di disposizione diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato.
Il dibattito si incentra sulla verifica della “meritevolezza e/o illiceità della causa” dell’atto di rinuncia alla proprietà immobiliare, o della “illiceità del motivo”, o della “frode alla legge”, o della “nullità per contrasto col divieto di abuso del diritto”. In tale dibattito, si deve tener conto degli approdi della giurisprudenza della Corte di Cassazione in ordine all’ambito del sindacato di meritevolezza ex Art. 1322, secondo comma, c.c., ancorato al presupposto dell’atipicità del negozio; ovvero al controllo sul rispetto dei “limiti imposti dalla legge”, di cui al medesimo Art. 1322, primo comma, da compiersi attraverso lo spettro delle norme costituzionali e sovranazionali.
Tutti questi possibili rimedi invalidanti dell’atto di rinuncia alla proprietà di un immobile non appaiono praticabili in base a quanto dapprima sostenuto con riguardo all’ammissibilità della rinuncia stessa.
Come già detto, la rinuncia alla proprietà immobiliare è atto essenzialmente unilaterale e non recettizio, la cui funzione tipica è soltanto quella di dismettere il diritto, senza interessarsi della futura destinazione del bene e del suo contestuale, o successivo, eventuale acquisto da parte di altro soggetto. In quanto modo di attuazione dell’interesse patrimoniale del proprietario, nella specie mediante esercizio della facoltà di disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo accordata dall’Art. 832 c.c., l’unico intento che ha rilievo giuridico è quello dell’autore della dichiarazione di rinuncia.
La rinuncia costituisce forma di espressione del potere di disposizione del proprietario che non è soggetta dalla legge ad alcun espresso limite di scopo, limite che l’Art. 42, secondo comma, Cost. potrebbe, viceversa, in astratto fondare ove si ravvisasse un immediato controinteressato il quale, a tutela della propria sfera giuridica, potesse impedire il prodursi dell’effetto abdicativo, in maniera da imporre al rinunciante di rimanere titolare della proprietà.
Pertanto, la rinuncia alla proprietà immobiliare espressa dal titolare “trova causa” in sé stessa e non nell’atto di un “altro contraente” cui sia destinata, e quindi soddisfa di per sé anche il controllo di meritevolezza dell’interesse perseguito.
La meritevolezza della rinuncia abdicativa alla proprietà di un immobile va apprezzata non come mezzo di valutazione della congruità di uno scambio economicamente significativo in base alle regole del mercato, ma con riferimento al potere dominicale di scegliere la destinazione economica da imprimere alla cosa e di utilizzarla in modo oggettivamente apprezzabile.
A fronte di un atto di esercizio del potere di disposizione patrimoniale del proprietario diretto alla perdita del diritto, non può peraltro comprendersi tra i possibili margini di intervento del giudice un rilievo di nullità virtuale per contrasto con il precetto dell’Art. 42, secondo comma, Cost., sia pure inteso quale specificazione con riferimento alla proprietà privata dell’Art. 2 Cost., per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà.
La rinuncia alla proprietà immobiliare animata dal “fine egoistico” di accollare allo Stato le spese e i danni dei fondi in dissesto idrogeologico, inquinati o inutilizzabili, analizzata in base alla funzione obiettiva che il rinunciante intenzionalmente attribuisce al negozio e, quindi, alle finalità individuali, concrete, che ne condizionano il senso e la portata, dovrebbe dirsi contraria ad una norma imperativa, oppure il mezzo per frodare l’applicazione di una siffatta norma, o ispirata da un motivo illecito determinante obiettivizzato nell’atto abdicativo.
Sotto un profilo formale, l’applicazione diretta da parte del giudice del principio della “funzione sociale” ex Art. 42, secondo comma, Cost., come norma imperativa e quindi come regola di validità cui la rinuncia alla proprietà immobiliare debba sottostare, è preclusa dalla riserva di legge che condiziona la determinazione dei modi di acquisto, di godimento e dei limiti.
L’Art. 42, secondo comma, Cost. contempla, invero, una riserva di legge relativa, rafforzata dall’indicazione dello scopo della funzione sociale (nonché dell’accessibilità a tutti), la quale così rappresenta l’indirizzo generale cui deve ispirarsi la legislazione ordinaria: ciò comporta che le limitazioni della proprietà, preordinate ad assicurarne la funzione sociale, possono essere stabilite solo dal legislatore, e non dal giudice.
Sotto un profilo sostanziale, osta a ritenere che la rinuncia alla proprietà immobiliare possa realizzare un contrasto con l’Art. 42, secondo comma, Cost., la considerazione, già svolta, che tale norma non implica un dovere di essere e di restare proprietario per “motivi di interesse generale”, essendo dato il minimo costituzionale del diritto di proprietà sia dal legame di appartenenza del bene, sia dall’apprezzabile valore economico dello stesso. Diversamente opinare, significherebbe introdurre un apparato critico avente valenza politica, del tutto estraneo a valutazioni di natura giuridica. Così, imporre al proprietario di rimanere tale allo scopo di scongiurare una fruizione meramente egoistica del proprio diritto dominicale, importerebbe piegare quest’ultimo ad una funzione sociale intrinseca. Essa si porrebbe, per tale via, come atta a consentire un sindacato permanente sulle modalità di utilizzo della proprietà che appare estraneo al nostro ordinamento. Si potrebbe giungere all’estremo di imporre al titolare di un bene di rimanere tale per garantire un gettito fiscale allo Stato, giungendo a ribaltare la logica per la quale dovrebbe essere piuttosto lo Stato ad operare in modo tale da favorire la valorizzazione del patrimonio immobiliare.
Consistendo la rinuncia abdicativa alla proprietà in un atto di esercizio del dominio realizzatore dell’interesse patrimoniale protetto dalla relazione assoluta di attribuzione tra soggetto e bene, essa non si presta ad un impiego come strumento diretto ad eludere norme imperative per ottenere un risultato vietato dalla legge, né può pensarsi finalizzata esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali.
Quello che la rinuncia esprime è l’interesse, a saldo totalmente negativo, a disfarsi della proprietà, e cioè il disinteresse a mantenere la titolarità del bene, mentre l’ipotizzato abuso abdicativo supporrebbe un esercizio della facoltà proprietaria diretto a concretizzare un interesse positivo diverso da quello che ne giustifica il riconoscimento e a raggiungere un risultato economico non meritato.
D’altro canto, la rinuncia alla proprietà di un immobile non può mai dirsi voluta per conseguire l’effetto di farne ricadere gli oneri sullo Stato, giacché la conseguenza della insorgenza della responsabilità statale propter rem discende non dall’autoregolamento degli interessi dettato dal rinunciante, ma, come già affermato, dall’acquisto ex lege stabilito dall’Art. 827 c.c.
Sempre perché la rinuncia alla proprietà di un immobile dà luogo ad una modalità di attuazione dei poteri dominicali di utilizzazione e di scelta della destinazione della res, non è, dunque, sostenibile un controllo giudiziale che preluda ad una tutela demolitoria dell’atto contro gli abusi di cui siano rimasti vittime terzi interessati, per la salvaguardia di scopi generali e di ragioni di efficienza economica.
Ciò non implica una confutazione delle autorevoli tesi che ravvisano nella funzione sociale ex Art. 42, secondo comma, Cost. un “limite interno” precettivo della proprietà, che regola in negativo i comportamenti del proprietario, vietandogli quelle attività non espressamente previste dalla legge come rientranti fra i suoi poteri, né sorrette da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale, e pertanto esterne alla relazione tipica di interesse corrente tra dominus e bene. L’esercizio antisociale della proprietà rimane soggetto al controllo giudiziale con riguardo a quei concreti comportamenti proprietari che sacrificano le ragioni dei terzi e che vengono perciò valutati secondo i canoni della responsabilità civile.
Quel che qui si intende è che, in presenza di un atto di disposizione patrimoniale, quale la rinuncia formale alla proprietà di un immobile, essenzialmente votato alla perdita del diritto, non può invocarsi lo scopo della funzione sociale – che l’Art. 42, secondo comma, Cost. impone alla normazione conformativa del contenuto del diritto di proprietà – per decidere della validità di tale atto, affidando al giudice un “sindacato di costituzionalità” della medesima rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare in nome di un bilanciamento di interessi da sovrapporre a quello operato nel c.c..
Per ricostruire altrimenti la nullità della rinuncia ad immobili “dannosi” come dipendente dalla impossibilità giuridica del suo oggetto, fa comunque difetto la base legale che ostacoli in modo assoluto il risultato cui essa è diretta.
Le Sezioni Unite respingono con forza l’argomento basato sulla funzione sociale della proprietà di cui all’Art. 42 della Costituzione. Solo il Legislatore può tramite una legge imporre limiti al diritto di proprietà. Non può il Giudice applicare una norma sulla validità del contratto così costringendo il proprietario a rimanere tale. Una proprietà “imposta” è contraria ai principi fondamentali del nostro sistema giuridico.
L’argomento che la condotta manutentiva è giuridicamente doverosa per il proprietario (ai sensi dell’Art. 2053 c.c.) o che su di esso spieghi effetti il rapporto custodiale con la cosa (ai sensi dell’Art. 2051 c.c.) è insuperabile quale criterio giustificativo della realità delle obbligazioni che trovano la propria ragion d’essere nelle anzidette fattispecie di responsabilità speciali, in base al principio “cuius commoda eius et incommoda” (antico brocardo latino secondo cui chi trae beneficio da una determinata situazione o attività è anche tenuto a sopportarne gli oneri e le conseguenze negative che ne derivano), ma si rivela fallace, cioè privo di validità logica, se adoperato a confutazione della rinunciabilità della proprietà.
La responsabilità per i danni che siano causalmente collegati alla proprietà di un immobile, e il cui fatto illecito generatore si rinvenga nella negligente costruzione/manutenzione o custodia dello stesso, persiste anche in caso di rinuncia abdicativa (e non liberatoria) al bene. In forza dell’acquisto al patrimonio dello Stato, stabilito dall’Art. 827 c.c., lo Stato diviene vincolato “propter rem” per i soli obblighi gestori sorti dopo la rinuncia, mentre le responsabilità risarcitorie sorte anteriormente restano a carico del rinunciante.
Se ne trae plausibile conferma dalla disciplina dettata dall’Art. 882 c.c. per la fattispecie della rinuncia al diritto di comunione sul muro comune e della correlata esenzione dall’obbligo di contribuzione nelle spese di riparazione e ricostruzione, ove si nega l’effetto liberatorio per il rinunciante che “abbia dato causa col fatto proprio”, trasferendosi, a causa della dismissione del diritto reale, l’onere delle spese dipendenti dall’uso normale della cosa, e non invece di quelle connesse ad un pregresso titolo di responsabilità personale. Mentre l’onere delle spese di riparazione e ricostruzione del muro comune per quelle cause di deterioramento dipendenti dal suo uso normale è, ai sensi dell’Art. 882 c.c., a carico di tutti i comproprietari, in proporzione del diritto di ciascuno, e si trasferisce, perciò, in capo a chiunque sia proprietario della cosa nel momento in cui si presenta la necessità della riparazione o della ricostruzione, l’onere delle spese provocate dal fatto di uno dei partecipanti, essendo connesso alla responsabilità personale di questo, grava esclusivamente sul soggetto che vi ha dato causa e non si trasferisce, quindi, a causa del trasferimento del diritto reale, al condomino che gli è succeduto.
Riveste significato in tale prospettiva altresì la ricostruzione operata nella sentenza delle Sezioni Unite del 1 febbraio 2023, n. 3077, in tema di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, pervenendo alla conclusione che l’obbligo di adottare le misure di messa in sicurezza idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di essa sia responsabile per avervi dato causa, in base al principio “chi inquina paga”, e non del proprietario incolpevole per il sol fatto che gli appartiene la titolarità del fondo.
Nel medesimo angolo di visuale si colloca la sentenza 4 gennaio 2024, n. 199, che, a proposito del diritto di rivalsa della pubblica amministrazione nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese relative agli interventi di bonifica e ripristino ambientale eseguiti in via sostitutiva, ai sensi dell’Art. 17 del D.Lgs. n. 22 del 1997 (e, successivamente, degli Artt. 242, 244 e 250 del D.Lgs. n. 152 del 2006), ha delineato i tratti di un’obbligazione indennitaria ex lege, gravante sul medesimo responsabile ed avente ad oggetto il recupero degli esborsi necessari all’espletamento di una “pubblica funzione”, sostenuti “alla stregua di un peculiare meccanismo di sussidiarietà verticale”, attraverso il quale, “a garanzia della tutela di un bene di interesse super-individuale e dotato di rilevanza costituzionale, è sempre assicurato il ripristino ambientale”.
L’incidenza della responsabilità per i danni recati a terzi dalla cosa non può, quindi, individuarsi come limite della facoltà di disporne rinunziandovi, addossando al proprietario il dovere di rimanere tale, in maniera da agevolare la ricerca del soggetto obbligato a risarcire i medesimi danni connessi a detta qualità.
Con riguardo al perimetro di sindacabilità dell’atto di rinuncia posto in essere dal privato da parte dell’Autorità giudiziaria, si ripotano di seguito alcune riflessioni registrate in dottrina, precedenti l’intervento delle Sezioni Unite.
In particolare, considerato il tenore dell’alt. 1324 c.c., ci si è sempre chiesti se l’atto unilaterale in parola fosse compatibile con i concetti di causa concreta e meritevolezza degli interessi, espressamente previsti per la disciplina contrattuale.
La questione, non meramente dogmatica, ha sempre presentato notevoli ricadute in termini concreti, comportando il diritto di proprietà sia un onere di custodia (ad esempio, nel caso di proprietà di un terreno franoso che sia prospiciente una via pubblica o un centro abitato, ovvero di un edificio in stato fatiscente, che possa crollare sulla via pubblica o all’interno del quale chiunque possa penetrare e subire danni), che i connessi obblighi di responsabilità, oltre al venir meno, in capo al privato, dell’obbligo di pagare le varie imposte (ad esempio, quelle fondiarie, IT.M.U o la T.A.R.I.) collegate alla proprietà del bene oggetto di rinunzia.
Sul punto, vi è sempre stato contrasto in dottrina, per la cui soluzione l’attenzione è stata posta sull’elemento negoziale della la causa.
Sulla configurabilità o meno di una “causa” riguardo alla rinuncia abdicativa e, quindi, se a tale atto siano applicabili le norme in materia di causa illecita, contratto in frode alla legge e motivo illecito (Artt. 1343-1345 c.c.) si è in passato ampiamente discusso, come sopra detto.
Secondo una specifica impostazione, la rinunzia esprime di per sé un interesse meritevole di tutela, coincidente con la dismissione della situazione giuridica, che a sua volta costituisce la massima espressione del potere di disposizione che compete al titolare di essa. Sarebbe necessario, tuttavia, che il soggetto agisca al solo fine di raggiungere l’effetto tipico della rinunzia, ovverosia la perdita del diritto, e che “il perseguimento di tale scopo presenti, in sé o nel complesso assetto negoziale, quegli elementi di giustificazione economico-sociale che l’ordinamento consente di realizzare attraverso il negozio di rinuncia”.
Pertanto, ogni qualvolta l’atto di rinuncia sia posto in essere dal privato al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex Art. 827 c.c. – e dunque in capo alla collettività intera – i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex Artt. 2051 e 2053 c.c., che penale, come nel caso di cui all’Art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile, tale atto di rinuncia dovrebbe ritenersi nullo in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex Artt. 1322 e 1343 c.c. perché in palese contrasto con le istanze solidaristiche immanenti nella funzione sociale della proprietà ex Art. 42 Cost., e (comunque) con gli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’alt. 2 Cost., nonché con il limite del rispetto della sicurezza dei consociati ex Art. 41, comma II, Cost., l’una e gli altri costituenti limite inderogabile delle prerogative dominicali ex Art. 832 c.c.
Secondo un altro orientamento, già anticipatorio rispetto a quanto statuito dalle Sezioni Unite, ai fini della validità della rinuncia abdicativa non sarebbe necessario che l’atto presenti il requisito ulteriore di essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, come invece richiesto per i contratti atipici dall’Art. 1322 comma II c.c., in adesione alla prospettazione secondo cui la rinunzia esaurisce i suoi effetti in se stessa e comporta semplicemente il venir meno della proprietà su un bene immobile da parte del rinunciante.
L’atto in esame, inoltre, sarebbe incompatibile con la disciplina propria della causa. Non avendo il legislatore imposto alcun controllo espresso su tale atto di autonomia privata non si porrebbe, dunque, né un problema di valutarne la tipicità, né la necessità di accertarne la funzione economico-sociale, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra soggetti diversi.
In punto di diritto, secondo tale prospettazione, non sarebbe conferente il richiamo all’Art. 42 comma II Cost., secondo cui la legge può determinare i modi di godimento e i limiti della proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Da un lato, infatti, non risulta alcuna disposizione legislativa generale che preveda una siffatta limitazione al potere dispositivo, espressamente riconosciuto al proprietario dall’Art. 832 c.c.: laddove, infatti, il legislatore ha inteso porre limiti alla facoltà del proprietario di rinunciare alla proprietà privata di immobili, ha espressamente disciplinato la fattispecie, come nel caso di cui all’Art. 1118 comma II c.c. per il diritto del condomino sulle parti comuni. Dall’altro, in assenza di una puntuale disposizione di legge, la funzione sociale del diritto di proprietà non potrebbe spingersi al punto tale da impedirne la rinuncia al titolare, rendendo di fatto il soggetto ‘prigioniero’ del suo diritto.
In secondo luogo, riguardo al fine e al motivo del negozio realizzato dal privato, il limite di validità sarebbe costituito esclusivamente dall’illiceità: una volta esclusa l’illiceità, non potendo reputarsi tale il fine o motivo di convenienza economica ovvero risparmio di spesa, non sussiste una norma che imponga al privato di essere generoso e altruista nella gestione dei propri affari.
Anche la donazione, contratto con il quale una parte per spirito di liberalità arricchisce l’altra disponendo di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione, è soggetta a rigorosi requisiti di forma (cfr. Art. 782 c.c.) proprio perché si richiede nel donante un’attenta ponderazione dell’atto.
È invece presumibile che il privato ordinariamente ponga in essere i suoi negozi sulla base di considerazioni di convenienza economica o di risparmio di spesa, considerazioni del tutto lecite, certamente di per sé non riprovevoli e meno che mai illecite o contrastanti con norme imperative.
Pertanto, secondo l’orientamento in parola, la rinuncia abdicativa non diverrebbe di per sé illegittima perché posta in essere in base a mere valutazioni di convenienza e opportunità, peraltro riscontrabili in maniera analoga nelle fattispecie di cui agli Artt. 1104 e 1070 c.c. (cfr. Trib. Firenze, 15 settembre 2022, n. 2529, secondo cui “Al contrario, risulta invece conforme ai principi solidaristici che, in presenza di un terreno con elevata pericolosità geomorfologica, che determina una situazione di rischio per la circolazione su strada pubblica, utilizzata quindi dalla collettività, in conseguenza della rinuncia alla proprietà da parte del privato, i costosi interventi di messa in sicurezza siano finanziati con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario, del resto neppure colpevole per la conformazione del luogo e la composizione del suolo”; in senso conforme Trib. L’Aquila, 10 ottobre 2023, n. 623; Trib. L’Aquila, 23 ottobre 2023, n. 656; Trib. L’Aquila, 27 ottobre 2023, n. 682).
La natura originaria, e non traslativa, dell’acquisizione degli immobili vacanti al patrimonio dello Stato rende inapplicabili le disposizioni in materia di nullità urbanistiche, conformità catastale e prestazione energetica.
In particolare, con riguardo alla conformità catastale per due ordini di motivi: i) l’Art. 29 1° comma bis Legge n. 52/1985 fa riferimento alla sola costituzione di diritti reali e non anche alla rinuncia (argomento letterale); ii) la rinuncia posta in essere senza corrispettivo, nell’interesse esclusivo del rinunziante, non produce effetti diretti ma solo riflessi nei confronti del titolare della proprietà o nei confronti degli altri comproprietari; il beneficio a loro favore si produce ipso iure in forza del principio di elasticità della proprietà, dovendosi escludere qualsiasi effetto traslativo connesso a tale atto.
Quanto alla prestazione energetica, la stessa non sarebbe applicabile (Si veda al riguardo Studio di G. Rizzi del 24 dicembre 2013 dopo il DL 145/2013), essendo la rinuncia un atto, per analogia, assimilabile agli atti a titolo gratuito.
Sotto il profilo fiscale, trattandosi di atto a titolo gratuito, l’atto sarà esente da imposta di registro e, in quanto a favore dello Stato, l’atto non sarà soggetto ad imposta sulle donazioni ex Art. 89 1° comma del D.Lgs 1 agosto 2025 n. 123 né ad imposta ipotecaria e catastale ex Artt. 71 2° comma e 79 3°comma del D.Lgs 1 agosto 2025 n. 123, né a tasse ipotecarie e catastali ex Art. 85 del D.Lgs 1 agosto 2025 n. 123. L’atto sconterà invece l’imposta di bollo di Euro 230,00 ex Art. 2 lettera a) Tariffa parte I Allegato 3 al del D.Lgs 1 agosto 2025 n. 123.
Quanto alla forma, l’atto in questione deve rivestire sempre la forma scritta ex Art. 1350, n. 5 c.c. e in quanto atto trascrivibile, quella dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata.
Nell’atto notarile sarà costituito come parte formale e sostanziale il solo rinunciante, senza la presenza degli eventuali soggetti interessati, nè dei testimoni, mancando una finalità liberale.
L’Art. 2643, n. 5 c.c. prevede la trascrizione degli atti di rinunzia a diritti reali immobiliari. E’ indubbio, pertanto, che la rinunzia in questione debba essere trascritta.
Quanto agli effetti e alla natura della pubblicità nei Registri Immobiliari, è stato sottolineato da autorevole dottrina con riguardo alla rinuncia abdicativa, che, stante l’acquisto a titolo originario e non a titolo derivativo da parte dello Stato, la previsione della trascrizione di cui alla citata norma, non sarebbe in linea con le finalità e gli effetti propri della trascrizione di cui all’Art. 2644 c.c. (pubblicità dichiarativa rilevante ai fini della opponibilità ai terzi e non mera pubblicità notizia).
E’ stato replicato che in questo caso l’acquirente, cioè lo Stato, benché il suo acquisto sia l’effetto indiretto e riflesso della manifestazione di volontà del rinunziante, è soggetto individuato dalla legge fin dall’origine, stante la previsione normativa di cui all’Art. 827 c.c., con la conseguenza che vi sarebbe una “eadem ratio” tra questa fattispecie e quella dell’atto attributivo che giustificherebbe la previsione della pubblicità prevista per gli atti traslativi (pubblicità dichiarativa).
Circa le modalità della trascrizione, la Dottrina prevalente, la cui opinione è preferibile, ritiene che la trascrizione della rinunzia debba essere fatta, stante la sua natura puramente abdicativa, unicamente contro il rinunziante (e non a favore dello Stato), benchè altra pur sempre autorevole Dottrina sostenga che la trascrizione andrebbe presa contro il rinunziante ed a favore dello Stato.
Al riguardo si segnala che con Comunicazione della Direzione Regionale della Lombardia – Ufficio Servizi Catastali, cartografici e di pubblicità immobiliare (Circolare Consiglio di Milano 6-2023) con riguardo alla modalità di esecuzione della pubblicità immobiliare è stata confermata la prassi operativa corrente di indicare nella nota di trascrizione il solo soggetto rinunciante come parte “contro”, senza indicazione di alcun soggetto “a favore”. Ciò in considerazione del carattere unilaterale dell’atto (il rinunciante è l’unica parte del negozio giuridico di rinuncia) e l’assenza di un efficacia traslativa dello stesso. La nota di trascrizione deve riportare come codice atto quello codice 146.
Sempre con riguardo al predetto tema, si segnala che l’Agenzia del Demanio, al fine di ottenere la trascrizione a proprio favore di un acquisto immobiliare conseguente a rinuncia abdicativa del diritto di proprietà, ha talvolta con provvedimento amministrativo interno (.PDF) espressamente autorizzato il Conservatore dei Registri Immobiliari (.PDF) a eseguire tale formalità.
Con riguardo al regime patrimoniale del rinunciante, lo stesso potrebbe anche essere omesso (Si veda Circolare Ministero delle Finanze del 02/05/1995 n. 128/T paragrafo 3.4: “Poiché il regime patrimoniale voluto dall’art. 2659 c.c. è evidentemente quello disciplinato dalla legge regolatrice, la quale fa riferimento agli acquisti compiuti dai coniugi, restano escluse dall’obbligo della indicazione del regime patrimoniale delle parti le note relative ad atti che, a qualunque titolo, non producono effetti traslativi, le note relative ad atti di rinunzia a diritti reali di godimento e quelle relative ai decreti di espropriazione per pubblica utilità.“) ma è preferibile la soluzione più prudente posto che l’Art. 2659 c.c. non distingue al riguardo.
Resta il dubbio se occorra o meno trascrivere la/le accettazioni di eredità a favore del rinunciante, qualora il bene oggetto di rinuncia sia a questi pervenuto a titolo di eredità.
Se ci si sofferma sui motivi per i quali tale adempimento è, in generale, richiesto dalla legge quando si tratti di atti dispositivi, e sulla funzione, dunque, della formalità in esame, ci si rende conto che, verosimilmente, nel caso di specie, detta trascrizione non avrebbe alcuna delle utilità che le sono proprie e che, dunque, alla stessa si potrebbe soprassedere, senza alcuna conseguenza pratica.
Come è noto, la trascrizione di cui ora si discute, va eseguita: a) per garantire la cd. continuità delle trascrizioni di cui all’art. 2650 cod. civ.; b) per tutelare al massimo l’avente causa dall’erede potenzialmente solo apparente, in virtù di quanto disposto dagli artt. 534, ultimo comma, e 2652, comma 1, n. 7, cod. civ. e, dal 2010, in caso di atti dispositivi di fabbricati, c) per allineare intestazione catastale e risultanze dei registri immobiliari (cd. conformità catastale soggettiva), nel rispetto di quanto disposto dall’art. 29, comma 1 bis, ultimo periodo, L. 27 febbraio 1985, n. 52.
La circostanza che, a seguito della rinuncia alla proprietà, l’acquisto dello Stato avvenga a titolo originario, fa sì che, per tale acquisto, non rilevino continuità delle trascrizioni di cui alla lettera a) e conformità catastale soggettiva di cui alla lettera c), come del resto si è soliti evidenziare per altri acquisti a titolo originario, quali ad esempio quelli a titolo di usucapione.
Con riguardo poi alla tutela di cui alla lettera b), si può rilevare che qui si è fuori dalla logica della previsione dei citati art. 534, ultimo comma e 2652, comma 1, n. 7, cod. civ., destinati a proteggere gli “aventi causa” dall’erede che siano in “buona fede”: infatti, da un lato, e lo si è appena ricordato, lo Stato che acquista in virtù di rinuncia alla proprietà non è avente causa dal proprietario/erede rinunciante, dall’altro, non c’è nell’atto di rinuncia unilaterale, lo stato soggettivo dell’acquirente (che è qui assente e inconsapevole del suo acquisto) di cui prendersi cura.
In estrema sintesi, sembra proprio che, poiché l’acquisto a titolo originario dello Stato derivante dalla rinuncia alla proprietà si collochi al di fuori dei fenomeni di “circolazione dei beni”, la trascrizione dell’accettazione dell’eredità, pensata, invece, proprio per garantire la certezza e la tenuta di detta fenomeni, diventi ora irrilevante.
Quanto alla voltura, poichè la rinuncia non ha efficacia traslativa e la trascrizione reca solo il soggetto contro, la stessa non potrà essere eseguita né in automatico nè in differita.
L’impossibilità di volturare l’intestazione a favore del Demanio dello Stato crea un disallineamento tra le risultanze catastali ed i registri immobiliari ma ciò non preclude al soggetto rinunciante di evidenziare l’evento a Catasto presentando una istanza in bollo per richiedere l’apposizione della seguente annotazione: “Rinuncia abdicativa del …. Nota presentata con Modello Unico in atti dal … rep. N. … rogante Dott. …. Sede …. Rinuncia n. …/….”.
Al riguardo si segnala, che da parte di taluni Uffici del Catasto, la voltura viene eseguita se la presentazione della domanda di voltura è accompagnata da una sorta di nulla osta, benestare, autorizzazione del Demanio. Con circolare del giorno 11 novembre 2016 l’Agenzia delle Entrate Direzione Centrale Catasto, Cartografia e Pubblicità Immobiliare – Settore Servizi Catastali ha impartito alle proprie Direzioni Regionali precise disposizioni per una corretta intestazione catastale dei beni di proprietà dello Stato, indicando, in relazione alla fattispecie de qua, la seguente intestazione: “DEMANIO DELLO STATO” con sede in ROMA – Codice fiscale 97905320582.
Se da un lato dopo la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione può “apoditticamente” affermarsi l’ammissibilità e la legittimità della rinuncia alla proprietà immobiliare, non bisogna però dimenticarsi che tale rinuncia non libera il proprietario dalle obbligazioni “scomode” sorte prima della rinuncia al diritto di proprietà.
La rinuncia estingue il diritto di proprietà ma non fa “tabula rasa”, non cancella le responsabilità sorte in capo al proprietario nel periodo in cui era esclusivo titolare del bene, permanendo sullo stesso piena responsabilità per le obbligazioni e per i fatti pregressi. La rinuncia infatti risulta liberatoria solo con riguardo agli oneri futuri.
Proprio con riguardo a tale aspetto, si evidenzia talvolta il disagio dei notai, sotto il profilo operativo, nel trovare soluzioni adeguate rispetto a richieste sempre più pressanti di dismissione di beni immobili divenuti a tutti gli effetti “scomodi”.
In questo scenario, il Notaio assume un ruolo cardine, sia come operatore del diritto che entra da protagonista nel circolo ermeneutico, garantendo la perfezione formale dell’atto (atto pubblico o scrittura privata autenticata e successiva sua trascrizione presso i Registri Immobiliari) con l’elaborazione dello schema giuridico che, rispetto alla frammentaria normativa di riferimento, meglio regoli l’assetto di interessi del rinunciante, sia come garante della “legalità”.
Il Notaio, chiamato a confezionare l’atto, dovrà quindi, in ossequio alla legge e ai doveri deontologici, informare in modo completo ed esaustivo il Cliente di tutte le conseguenze annesse e connesse all’atto di rinuncia abdicativa, spiegando in particolare, in modo chiaro che la rinuncia, sebbene valida, non è rinuncia liberatoria e che conseguentemente lo stesso continuerà a rispondere per quanto verificatosi prima della rinuncia, sia in sede civile, che amministrativa, che penale e che fiscale, affinchè il Cliente prenda una decisione pienamente “informata” e consapevole.
Il Notaio insomma dovrà ricercare la migliore soluzione per il caso prospettato.
Concludendo, può affermarsi che dopo la sentenza delle Sezioni Unite il Notaio, pur in mancanza di una normativa ad hoc, può ricevere atti di rinuncia abdicativa senza timori di future contestazioni sulla loro validità intrinseca, lungi dal violare l’Art. 28 della legge notarile.
Al riguardo occorre però segnalare come nella bozza di legge di bilancio del 2026 sia stata subdolamente inserita una norma che mira a paralizzare il ricorso alla rinuncia abdicativa e che, se confermata, la renderà un negozio difficilmente praticabile, se non addirittura impossibile da praticare, esautorando di fatto tutti quei principi sanciti dalle Sezioni Unite nella sentenza qui commentata. Recita infatti l’Art. 130 comma 12 della legge di bilancio 2026 che “L’atto unilaterale di rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, cui consegue l’acquisto a titolo originario in capo allo Stato ai sensi dell’articolo 827 del codice civile, è nullo se allo stesso non è allegata la documentazione attestante la conformità del bene alla vigente normativa, ivi compresa quella urbanistica, ambientale, sismica“. (Si veda in tal senso l’articolo “Immobili, torna in salita la strada dell’atto di rinuncia alla proprietà” di A. Busani pubblicato su Il Sole 24 Ore del 21 ottobre 2025).