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Presidente e consigliere senza deleghe: nessuna responsabilità per bancarotta fraudolenta

  • 11/07/2025

Presidente e consigliere senza deleghe: nessuna responsabilità per bancarotta fraudolenta

Con la recente sentenza n. 14199 del 18.03.2025 (depositata in data 10.04.2025), la Corte di Cassazione, Sezione V Penale, ha escluso la responsabilità del Presidente del Consiglio di amministrazione di una società di capitali, privo di deleghe gestorie, per il reato di bancarotta fraudolenta. Nella specie, causato da “operazioni dolose” di cui all’articolo 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942, individuate nell’omesso versamento delle imposte sul valore aggiunto e in una operazione di cessione di ramo di azienda.

Si tratta di una sentenza certamente rilevante in quanto esclude – questa volta in termini netti ed univoci – che sull’amministratore di una società di capitali, neppure se Presidente del Consiglio di amministrazione, sussista una responsabilità oggettiva per gli illeciti di natura penale, in ragione la sola posizione ricoperta.

Il fatto

Nel procedimento di cui alla sentenza in commento, l’imputata, Presidente del Consiglio di amministrazione di una società per azioni, era stata condannata sia in primo grado che in appello, per il reato di bancarotta da operazioni dolose (ex art. 223, co. 2, n. 2 L.F.), poiché ritenuta corresponsabile del dissesto della società, dichiarata fallita nel 2012.

Secondo la prospettazione accusatoria, accolta dai giudici di merito, il dissesto era stato determinato dalla reiterata omissione, tra l’anno 2005 ed il 2012, del versamento di imposte all’erario nonché dalla cessione di un ramo d’azienda ad un soggetto terzo, per un corrispettivo ritenuto non congruo.

Nel periodo 2005-2009, mentre l’imputata ricopriva soltanto la carica di Presidente del Consiglio di amministrazione, senza deleghe operative; era stata rilasciata ad altro componente un’ampia delega gestoria, anche in relazione agli adempimenti di natura fiscale, contributiva e previdenziale, compresi i pagamenti delle imposte all’erario.

Secondo la tesi della Procura, il Presidente del Consiglio di amministrazione avrebbe comunque dovuto vigilare sull’operato degli altri membri, impedendo la progressiva dispersione del patrimonio sociale.

Nello specifico, secondo la Corte d’Appello, la mera carica di “presidente del consiglio di amministrazione dal giugno 2005 al 12/6/ 2009, pur in presenza di altri due consiglieri delegati, uno dei quali con poteri amplissimi di gestione finanziaria della società, sarebbe sufficiente a renderla responsabile delle omissioni di pagamento, sebbene in detto periodo la stessa risultasse “sprovvista di concreti poteri di gestione finanziaria della società”.

Infatti,proseguono i giudici di secondo grado,la posizione ricoperta dall’imputata doveva ritenersi “preminente rispetto ai componenti del medesimo organo” e “quindi dotata di un potere-dovere di vigilanza e controllo sull’esercizio delle deleghe”.

In aggiunta, nel periodo successivo tra il 2009 ed il 2012, quando l’imputata era amministratore unico della Società, le omissioni erano proseguite, con ciò confermando “il precedente “sistematico inadempimento” e, dunque, la “strategia intrapresa di ricorrere al finanziamento dell’attività sociale attraverso il mancato adempimento dei debiti erariali”.

Secondo questa ricostruzione, il Presidentenon potevadunque “ignorare l’ammontare complessivo dei debiti maturati nei confronti delle istituzioni… e neppure poteva ignorare ulteriormente i debiti erariali pregressi accumulati dalla società allorché, nel periodo susseguente, divenuta sua amministratrice unica”.

La difesa impugnava tale sentenza avanti la Corte di Cassazione, rilevando che:

  1. l’imputata quale Presidente del Consiglio di Amministrazione era sprovvista di poteri di gestione della società, sicché, anche ammesso che l’operazione dolosa risalisse al 2005, una simile condotta non avrebbe potuto comunque esserle ascritta;
  2. successivamente, quale amministratore unico, diede priorità al pagamento dei dipendenti e dei principali fornitori di servizi, tentando anche una rateizzazione dei debiti fiscali con Equitalia, purtroppo non andata a buon fine.  La finalità perseguita dall’imputata era quindi quella di risanare la società, un obiettivo naufragato solo a causa dal protrarsi del dissesto causato dalla precedente gestione, e non da una strategia fraudolenta.

La decisione della Suprema corte ed il principio di diritto

Ebbene, la Corte di Cassazione nella sentenza qui in commento ha ribaltato le valutazioni dei Giudici di primo e di secondo grado, ed ha escluso la responsabilità dell’imputata, sia quale Presidente del Consiglio di amministrazione, sia quale amministratore unico.

La Corte di legittimità ha anzitutto affermato che l’intero periodo oggetto di imputazione (2005-2012) deve essere diviso in due parti: la prima parte, chiusasi nel giugno 2009, in cui l’imputata era solo Presidente del Consiglio di amministrazione della fallita, senza delega alcuna quando al contempo “v’era delega ad occuparsi (anche) del pagamento delle imposte in capo ad un altro soggetto”. 

La seconda parte relativa invece al periodo immediatamente successivo, in cui l’imputata era rimasta l’unica ad amministrare la fallita.

Secondo la Cassazione, rispetto alla prima parte, il ragionamento svolto dalla Corte d’Appello doveva ritenersi carente e in contrasto con i “principi di diritto già stabiliti in materia di attribuzione delle responsabilità per i reati di bancarotta”, che individuano come responsabili “solo chi risulti avere quei poteri gestori sottesi agli atti che ne costituiscano il substrato”.

Rispetto alla seconda parte, il ragionamento era invece illogico: “laddove attribuisce dette responsabilità a chi abbia, per contro, provato ad invertire il modus operandi oggetto della detta condotta criminosa, allorché ne ha acquisito il potere”.

Ebbene, riprendendo anche alcuni suoi precedenti, la Corte precisa che in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso dell’amministratore privo di delega per omesso impedimento del reato commesso da altri (e quindi, nel caso di specie, dell’omesso versamento delle imposte) è configurabile soltanto quando emerga la prova:

  1. dell’effettiva conoscenza da parte dell’amministratore privo di delega di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili (conoscenza da cui si può desumere che questi abbia accettato il rischio che gli amministratori operativi commettano dei reati);
  2. della volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento;
  3. della sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni degli amministratori senza deleghe e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega (sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, per cui inserendo mentalmente la condotta omessa, il reato non sarebbe stato commesso, Cass. Pen., Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Rv. 284175-01).

Pertanto non è sufficientela mera presenza dei c.d. segnali d’allarme – tra cui ad esempio la conoscenza di un consistente debito erariale – essendo invece «necessario che il consigliere privo di delega ne sia concretamente venuto a conoscenza e sia rimasto volontariamente inerte così avallando le condotte mendaci o distrattive degli amministratori dotati di deleghe».

Conclusioni

Non può che condividersi tale orientamento, anche considerato chegli amministratori senza delega, alla luce della riforma del diritto societario del 2003, non hanno più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati.

L’art. 2392, comma 2, cod. civ. non prevede più, infatti, che siano «solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione», ma che lo siano solo se, «essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli», non abbiano «fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose».

Inoltre, ed occorre precisarlo, non vi è alcuna distinzione in questo senso tra il Presidente ed i componenti del Consiglio di amministrazione.

Il Presidente, ai sensi dell’art. 2381, comma 1, c.c. si occupa infatti soltanto «di fissare l’ordine del giorno, di coordinare i lavori e di provvedere affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri».

Se il Presidente non ha deleghe gestorie, su di lui non sussiste una responsabilità penale per il solo fatto della carica ricoperta.

Resta ovviamente fermo, ai sensi dell’art. 2381 ultimo comma c.c., il dovere in capo a tutti gli amministratori di “agire informati” e di chiedere agli organi delegati di dare informazioni in Consiglio sulla gestione della società.

Occorre quindi, anche se si ricopre la carica di amministratore non esecutivi, senza deleghe, prestare la massima attenzione ad eventuali segnali di allarme e chiedere tutte le informative ai consiglieri operativi.

Sul punto, senza alcuna pretesa di esaustività, si riportano alcune circostanze che potrebbero integrare quei “segnali di allarme” idonei a far sorgere in capo agli amministratori il dovere di attivarsi per meglio comprendere la situazione societaria e per evitare il compimento di illeciti, anche di natura penale.

Segnatamente:

  • il compimento di operazioni estranee all’oggetto sociale o prive di giustificazione;
  • la realizzazione di operazioni rilevanti senza il previo svolgimento di alcuna istruttoria o analisi;
  • la gestione personalistica dell’impresa o l’interesse taciuto nell’operazione da parte degli amministratori o di loro parti correlate;
  • incongruenze contabili nelle voci di bilancio;
  • il ricorso costante o cospicuo a finanziamenti soci o la mancata ricapitalizzazione;
  • rilievi mossi dal collegio sindacale, dalla società di revisione o dall’organismo di vigilanza 231;
  • le richieste di accesso da parte dei soci alla documentazione societaria;
  • rilevante e persistente crisi di liquidità;
  • consistenti debiti erariali o crediti IVA;
  • numerose vertenze sindacali;
  • sanzioni amministrative ai sensi del D.lgs. 231/2001;
  • comportamenti anomali o elusivi da parte degli amministratori delegati o dei soggetti apicali (tra cui omessa informativa ai componenti del Consiglio di Amministrazione).

Al verificarsi di tali eventi risulta opportuno (se non doveroso) per l’amministratore, anche privo di deleghe, chiedere informazioni e chiarimenti agli amministratori esecutivi; e nei casi più gravi denunciare il fatto in Consiglio di amministrazione, ai sindaci o all’assemblea dei soci (ed infine all’autorità giudiziaria), o ancora valutare di dimettersi in mancanza di misure o interventi correttivi.

Resta comunque da precisare che la gestione dell’impresa in difficoltà non può essere “criminalizzata automaticamente” una volta che sopraggiunge comunque il dissesto: il tentativo di salvare la società, onorando i debiti più urgenti e negoziando con l’erario, può e (ad avviso di chi scrive) deve essere letto quale prova (o quanto meno indizio) dell’assenza di natura fraudolenta delle operazioni, con esclusione del reato di bancarotta dolosa.